La pragmatica cognitiva nelle interazioni verbali
In questo articolo verranno definiti, secondo un ambito pragmatico, gli aspetti della conversazione, soffermandosi sull’aspetto verbale, e verranno delineate alcune teorie che hanno trattato l’argomento della conversazione, con lo scopo di mostrare la sua importanza e capire meglio le interazioni di vita quotidiana con le altre persone.
Introduzione
Diversi studiosi si sono accostati all’argomento come i semiotici ma anche i linguisti ed i logici che classificano la comunicazione secondo quattro livelli: il lessico (studio delle singole parole), la sintassi (che esamina l’ordinamento interno degli elementi comunicativi dei codici, delle lingue e dei modi di combinazione), la semantica (che si occupa della comunicazione dei segni, dei codici e delle lingue e dei suoi oggetti) ed infine la pragmatica (che si occupa del rapporto fra comunicazione, interlocutori ed ambiente in cui si svolge l’interazione). Soffermandosi brevemente sulla semantica va detto che a seconda dell’ambito esaminato prende denominazioni diverse: la “semantica logica o referenziale” si riferisce ai segni e alle nozioni ad essa connesse come il concetto di “verità”; la “semantica concettuale” si occupa del significato inteso in senso concettuale; la “semantica strutturale” affronta invece il valore di senso della funzione di un determinato elemento discendendo dal resto del contenuto complessivo; mentre la “semantica componenziale” esamina le componenti essenziali che costituiscono il significato di un discorso. La pragmatica è una branca di studio ancora in evoluzione in quanto per lungo tempo ha semplicemente definito tutto ciò che non era possibile spiegare tramite il livello sintattico o semantico. Pertanto ancora non esiste una sua definizione univocamente precisa ma invece ne esistono molteplici. Ad esempio Bianchi (2011) la definisce come “lo studio delle relazioni fra segni e parlanti, fra espressioni linguistiche e coloro che se ne servono per comunicare i pensieri, è lo studio dei modi in cui è possibile usare le frasi in situazioni concrete.” e da questa frase si evince che la pragmatica può essere formata bene dal punto di vista grammaticale ma essere inappropriata e non coerente in certi ambienti interazionali. Per quanto concerne la conversazione per Grice (1975) è un’attività razionale, collaborativa e finalizzata ad uno scopo. Gli elementi che caratterizzano un’interazione sono la sequenzialità, l’interattività e la dinamicità che vanno ad intrecciarsi sia con il livello contestuale che con quello extratestuale a cui si riferiscono. In questa sede è importante tenere presente la distinzione, come affermava Grice, tra frase ed enunciato. Con il primo termine si indica un oggetto astratto con proprietà fonologiche, morfologiche, sintattiche e semantiche assegnate dalla grammatica del linguaggio. Invece per enunciato si intende un oggetto concreto, localizzato nello spazio e nel tempo, usato in uno scambio comunicativo effettivo. Quindi pur ereditando le proprietà linguistiche di una frase l’enunciato acquisisce ulteriori proprietà in quanto viene proferito in una particolare situazione da un determinato parlante che si rivolge ad uno specifico destinatario.
La conversazione e alcune teorie che l’hanno trattata
In particolare per quanto concerne la pragmatica va detto che sono state elaborate varie teorie sulle interazioni verbali. Ad esempio de Saussure, linguista e semiologo francese e considerato fondatore della linguistica moderna in particolare del ramo del strutturalismo, nell’opera pubblicata postuma “Corso di linguistica generale” nel 1916, distingueva il codice o insieme delle convenzioni in cui si esprime una lingua o langue, dall’atto dell’individuo che usa quel codice o parole. In questa differenziazione si riflette la dimensione sociale e quella individuale nonché quella tra astratto e concreto. Tra lingua e parola, ovviamente, c’è un’interdipendenza in quanto la lingua è un insieme e nel contempo lo strumento, che si dà per scontato, della parola, ed a sua volta la parola è la condizione dell’evoluzione della lingua. Di conseguenza nella prima si parla di paradigmatica della parola in cui si descrive il codice, il quale risulta essere accettato e condiviso socialmente, e di una sintagmatica della parola che tratta della sua esecuzione, la quale è individuale. Questa teoria ha dato impulso ad altri branche di ricerca come la neurolinguistica (studio delle relazioni tra il sistema nervoso e l’attività linguistica dal punto di vista neurologico), la psicologuistica (settore della linguistica che studia i meccanismi psicologici alla base dell’acquisizione, dell’elaborazione e dell’impiego della lingua; in questo campo la figura più famosa è Noam Chomsky) e la sociolinguistica (studio dei rapporti tra fenomeni linguistici, a livello grammaticale, lessicale, e fonologico, e fenomeni sociologici come età, sesso strato sociale, formalità ed informalità della comunicazione). Un ulteriore esempio è fornito dai sostenitori di una semantica formale cioè di teorici del linguaggio ideale come Frege, Russell, Tarski, Carnap e il primo Wittgenstein che considerano la semantica come espressione del linguaggio naturale che può essere espressa dalla logica. A questi si oppongono i teorici del linguaggio ordinario, comune e di tutti i giorni i quali lo considerano oggetto d’indagine e tra questi spiccano il secondo Wittgenstein, Austin, Strawson. Di seguito prenderemo in considerazione più questo secondo filone di studio. Austin nel 1955 (in seguito ripreso con alcune varianti, nel 1969, da Searle) elabora una prospettiva secondo la quale, contrariamente a ciò che avveniva fino ad allora, il linguaggio non viene concepito come un luogo in cui coincidono il significato dell’enunciato con le sue condizioni di verità e verificabilità. A tal riguardo viene proposta una teoria degli atti linguistici cioè dell’azione del linguaggio per cui ogni dire è allo stesso tempo anche un fare. Secondo questa teoria è possibile distinguere tra “enunciati performativi” quando al momento del loro proferimento si compie un’azione a prescindere dalla sua verità (ad esempio “ti battezzo” o “vi dichiaro marito e moglie”) ed “enunciati constatativi” che invece descrivono qualcosa o uno stato di cose ed organizzano delle informazioni (ad esempio frasi come “2 + 2 = 4”, “Parigi è la capitale della Francia”). È possibile comunque considerare anche gli enunciati constatativi dei particolari performativi dove l’azione che si compie è affermare o asserire. È possibile studiare ogni atto comunicativo rispetto a tre diversi livelli d’azione: (1) “atto locutorio” dove l’atto di dire qualcosa è definito dagli aspetti fonetici, cioè dai suoni, dagli aspetti fatici che caratterizzano il proferimento che viene considerato come enunciazione di parole appartenenti ad una lingua e dagli aspetti retici che definiscono il proferimento considerato come enunciazione di parole dotate di significato. (2) “Atto illocutorio” che definisce il modo con cui vengono usate le parole e l’espressione della forza illocutoria che si può osservare ad esempio nelle affermazioni, nel dare ordini, fare promesse ecc…. (3) “Atto perlocutorio” che definisce le conseguenze che si ottengono nel dire qualcosa. Il buon esito di ogni comunicazione è legata alla riuscita o come viene tecnicamente chiamata alla “felicità” di questi atti (locutorio, illocutorio e performativo). In relazione alle loro forze performative i verbi vengono classificati in:
- veridittivi se esprimono un giudizio, una sentenza come ad esempio condannare, valutare, calcolare;
- commissivi quando dichiarano un intento o assumono un obbligo come ad esempio supplicare, promettere;
- esercitivi laddove si riferiscono all’esercizio di un comando o di un potere come ad esempio sposare, votare, promuovere;
- comportamentali se riferiti alle reazioni al comportamento altrui come ad esempio ringraziare o disapprovare;
- espositivi quando servono ad argomentare o dichiarare idee come ad esempio spiegare, chiarire.
Successivamente, in considerazione del fatto che il cosiddetto modello del codice (costituito da un interlocutore e un destinatario che si scambiano un messaggio, modello ipotizzato da Austin) si rivela insufficiente per recepire correttamente un messaggio (perché non è detto che questo giunga al destinatario nella stessa maniera in cui pensava l’interlocutore) è stato ideato un altro tipo di modello, denominato “inferenziale”. Con il termine “inferenza” si intende quel tipo di ragionamento, non sempre esplicito e consapevole, in cui colui che ascolta tenta di attribuire intenzioni comunicative al parlante. Pertanto secondo questo schema chi parla dovrebbe fornire degli indizi anche se non necessariamente con le parole che il destinatario dovrebbe interpretare. Soffermiamoci sulla forma comunicativa della conversazione che Bazzanella (2011) definisce in questo modo: “la conversazione è frutto di una collaborazione, di un lavoro in comune, tanto da essere considerata metaforicamente come tessuto in cui i contributi di parlante di turno ed interlocutore si intrecciano tra di loro, fin quasi a confondersi, e comunque a costituire un unico prodotto”. Questa citazione indica quelli che sono gli aspetti più salienti che caratterizzano la conversazione la quale, infatti, non è altro che la coordinazione fra gli interlocutori che vi partecipano in relazione sia al contenuto e sia ai vari processi coinvolti che mirano a realizzare gli intenti che ci si prefigge di raggiungere. I processi di comunicazione coinvolti sono una continua e comune impresa multidimensionale basata sulla negoziazione dei significati, delle intenzioni e dei propri ruoli affinché questi siano corretti in virtù dei propri fini. Più nello specifico Grice (1975) formulò il cosiddetto principio di cooperazione, ideato per la prima volta, secondo cui l’orientamento dei partecipanti ad una conversazione è governato da quattro massime che riflettono le aspettative degli interlocutori: della quantità (dai un contributo che sia tanto informativo quanto è richiesto, non dare un contributo più informativo di quanto viene richiesto), della qualità (non dire ciò che credi sia falso, non dire ciò di cui non hai le prove adeguate), della pertinenza o relazione (sii pertinente) e del modo (evita l’oscurità di espressione, evita l’ambiguità, sii breve, sii ordinato nell’esposizione). Queste massime indicano i punti d’orientamento e le aspettative vicendevoli su cui ogni interazione si fonda per garantirne efficacia e razionalità. Frequentemente nelle interazioni quotidiane queste massime vengono violate. In questi casi i principi cooperativi che sono sempre attivi danno il via a processi inferenziali dette implicature. Come già affermato in precedenza, per processo inferenziale si intende quel meccanismo che parte da un insieme di premesse (input) per giungere ad un termine (output) attraverso un insieme di conclusioni logicamente implicate o almeno giustificate dalle premesse. Con il termine “implicature” invece si intende il meccanismo che entra in azione per ‘interpretare il significato inteso dal parlante (significato occasionale) e per rimediare alle violazioni delle massime che sono calcolabili tramite un processo inferenziale. Si può perciò constatare come questo meccanismo permetta di ridurre la distanza tra il significato letterale della frase (veicolato dalla semantica delle singole parole) che è parallelo al significato naturale cioè convenzionale e il significato non letterale, che lo studioso chiama enunciato e che è arbitrario. Quindi un’implicatura è quella parte del significato che non è esplicitamente detta dal parlante ma la cui comprensione viene sottintesa dal parlante in virtù della violazione delle massime conversazionali. Il parlante, in particolare, tende a suscitare perplessità quando il parlante lascia intendere un determinato significato. Per riassumere si può affermare che nell’implicatura è possibile mantenere uniti i significati delle espressioni nel linguaggio naturale mentre ci si deve rifare alla pragmatica per quelli occasionali. In sintesi i concetti chiave della teoria di Grice riguardo alla conversazione ma che a mio avviso potrebbero essere estesi a tutte le forme di comunicazione sono: il significato come intenzione, il principio di cooperazione, le massime conversazionali e le implicature. Quindi tutti gli usi discorsivi apparentemente illogici che violano le massime trasmettono in realtà molto più di quanto dicano esplicitamente e questo vale anche per le figure retoriche come l’iperbole, la metafora e l’ironia. I pensatori successivi a Grice hanno modificato taluni aspetti della sua teoria per tentare di semplificarla. Il primo problema che affrontano è la riduzione del numero di massime. Ad esempio Atlas e Levinson (1981) su questo intento introducono il principio d’informalità basato sull’osservazione di alcuni casi di conversazione quotidiana secondo cui all’interno di un enunciato ci sono maggiori quantità di informazioni rispetto a quelle che vi vengono verbalizzate. Un interlocutore raramente si sofferma al solo significato letterale ma tende quasi sempre ad estrapolare al massimo ciò che non è detto esplicitamente. In realtà egli attribuisce al parlante intenzioni e credenze superiori a quanto palesemente espresso. A questo proposito i due studiosi si soffermano su alcune tematiche rilevanti ai fini pragmatici: l’implicito, la presupposizione, l’implicitazione (a livello logico) e l’implicatura. Nell’implicito fanno rientrare vari tipi di valori non manifesti all’interno di una frase anche se sono in qualche modo inferibili ad esempio a livello semantico. L’altra importante questione da considerare è quella della presupposizione che interessa quelle proposizioni assunte come vere e limitate a certe inferenze semantiche o pragmatiche e che è possibile isolare utilizzando alcuni test linguistici specifici. Ne è una dimostrazione la cosiddetta costanza sotto negoziazione secondo cui una presupposizione continua ad esistere nonostante la frase sia negativa. Ad esempio la frase: “ieri ho/non ho incontrato l’amante di tua moglie” lascia immaginare, presupporre che esista un amante della moglie, anche se la frase è negativa. Ci sono dei particolari elementi, degli attivatori che innescano la presupposizione: descrizioni definite, verbi fattivi (es. rendersi conto), verbi implicativi (es. smettere), verbi di cambiamento di stato (es. iniziare), verbi iterativi (es. ripetere), verbi di giudizio (es. criticare), proposizioni temporali, frasi scisse, ipotetiche controfattuali. In particolare le presupposizioni si classificano in pragmatiche od enciclopediche ed in semantiche o lessicali. Nelle prime si opera una distinzione tra ciò che è detto e ciò che si sottintende che dipende dal contesto nel quale l’enunciato viene pronunciato, dalle credenze/conoscenze condivise e dagli atteggiamenti/intenzioni degli interlocutori. Nelle seconde ciò che si dà per scontato non è obbligatoriamente vero ma viene considerato tale dal parlante ed infatti in alcuni casi esse possono risultare controverse o non scontate per l’ascoltatore. Le presupposizioni vengono utilizzate per fornire un’informazione oppure per manipolare o persuadere. Nel 1973 uscì un articolo di Lakoff il quale metteva in rilievo l’importanza delle condizioni pragmatiche che normalmente si utilizzano nelle conversazioni ordinarie e evidenziava due possibili regole: sii chiaro (riprendendo Grice) e sii cortese. Queste regole a volte coincidono ma più frequentemente no e questa circostanza innesca conflitti tra gli interlocutori. Quando ciò si verifica invece della chiarezza si predilige la cortesia ovvero si ritiene più importante evitare di offendere l’altro piuttosto che essere chiari. Questo meccanismo che viene chiamato logica della cortesia viene considerato il simbolo del viver civile. La violazione della chiarezza può danneggiare la comprensione mentre il non rispetto della cortesia può guastare il rapporto stesso. L’autore dell’articolo propone tre regole di cortesia che valgono parallelamente a quelle di Grice anche per le azioni non verbali:
- non ti imporre.
- offri delle alternative.
- metti il destinatario a suo agio e sii amichevole.
Ne consegue che il non essere diretti viene privilegiato rispetto alla chiarezza in quanto l’interlocutore non viene posto in una condizione d’inferiorità dal momento che gli vengono poste delle alternative. Tant’è che per cortesia s’intende quell’insieme di strategie che hanno l’obiettivo di stabilire, conservare o alterare i rapporti tra gli interagenti e che assumono un ruolo interpersonale, sociale o istituzionale. Per determinare la cortesia o la scortesia bisogna fare riferimento sia all’atto in questione con le sue relative caratteristiche che alle regole specifiche degli appartenenti ad un dato gruppo/cultura. Analizzando l’atto in questione si può osservare che quando vengono chieste delle informazioni di carattere generale (come l’ora) si tende solitamente ad avvertirle con minore imposizione rispetto a quando vengono impartiti degli ordini veri e propri. Questa differenza si evince in relazione all’argomento trattato e ai vantaggi che l’azione comporta al destinatario. In merito a questo Leech (1983) ha elaborato una modalità interpersonale del principio di cooperazione, ovvero la massima del tatto il quale riduce l’aspetto negativo dell’atto minimizzando il costo per l’ascoltatore e massimizzando l’aspetto positivo, ossia il beneficio per l’ascoltatore. Questa massima perciò diventa uno strumento per evitare conflitti tant’è che non è sufficiente la forma grammaticale di un enunciato per valutare l’atto bensì è necessario considerare le situazioni in cui si manifesta. Quando due persone conversano negoziano continuamente sul significato del contenuto e sulla loro relazione cioè considerano quello che l’altro pensa, vuole o sente nei confronti di quanto viene detto. L’aspetto grammaticale attribuisce rilevanza soltanto in casi di svantaggio o di un atto di scortesia per l’ascoltatore che deve essere attenuato tramite alcuni meccanismi linguistici. Questi ultimi possono essere ad esempio formule fisse (per favore), motivazioni esplicite di richiesta (ho bisogno del tuo aiuto), modo verbale al condizionale (vorrei), forma interrogativa modalizzata (potresti), richiesta esplicita di autorizzazione (posso chiederle), l’uso di diminutivi (potrei usarlo per un mesetto?), l’utilizzo del noi inclusivo, di segnali discorsivi con il compito di mitigare (sa, non si può fare). Per esaminare il lato culturale rivestito della cortesia -attribuibile all’iniziale fine pragmatico d’implicitazione (a livello logico)- è necessario partire dal quadro teorico proposto nel 1978 da Brown e Levinson (ripreso da Goffman: la faccia come identità interazionale, che lo elaborò nel 1967) ovvero dell’identità vista come immagine di sé la quale proietta i partecipanti in uno scambio comunicativo, cioè di propria figura pubblica (la faccia come immagine pubblica). Essa può essere: 〉 negativa quando si mantiene la propria libertà dalle imposizioni ed intrusioni altrui. 〉 positiva se la propria immagine corrisponde realmente alla propria personalità ed è confermata dall’apprezzamento ed approvazione altrui. I due pensatori partendo dalla constatazione che in un dialogo le azioni degli altri possono minare la propria “faccia”, sia che questa possa essere positiva o che possa essere negativa, sia in relazione all’atto stesso che al rapporto di simmetria o asimmetria tra gli interlocutori, propongono tre strategie di cortesia:
- Positiva come espressione di solidarietà, ovvero ricorrere alle conoscenze/credenze comuni , evitare di esplicitare la discrepanza di opinioni attraverso la produzione di motivazioni (regali o mostrando comprensione) e spingere gli interlocutori a cooperare vicendevolmente.
- Negativa come espressione delle limitazioni, ossia con l’essere indiretti, ad esempio servendosi di atti linguistici indiretti, allo scopo di mantenere una certa distanza con l’interagente senza apparentemente forzarlo.
- Off record come espressione di vaghezza, favorendo così delle implicature conversazionali. L’ambiguità permette infatti diverse interpretazioni perché nasconde le vere intenzioni.
A queste strategie corrispondono mezzi linguistici specifici e che sono diversi da una lingua all’altra. Infatti le modalità per codificare queste tattiche passano attraverso la struttura delle lingue per poi in parte in regole grammaticali. La sistematica interazionale si basa in larga parte sui principi universali sottostanti ad ogni superficiale diversità di ogni lingua. L’applicazione dei principi cambia però a seconda della cultura di riferimento perciò genera in ognuna di esse delle inferenze sistematiche complesse. Potremmo semplificarla dicendo che per ogni restrizione della lingua reciprocamente accettata dai conversatori esiste un corrispondente insieme di interferenze potenziali costituitasi in seguito alla violazione o al rispetto della restrizione in questione. Per riassumere: le regole della cortesia possono cambiare da una variazione di codice linguistico ad un altro per quanto concerne la loro applicabilità ma non per quanto riguarda la loro forma fondamentale che resta universalmente la medesima. La cortesia, dunque, è un fenomeno sociale nato dal connubio tra differenti identità sociali e diversi sistemi di regole. Sperber e Wilson (1986) hanno elaborato una nuova teoria della pertinenza che coinvolge giudizi contestuali per la comprensione e l’utilizzazione dell’enunciato in una precisa situazione in rapporto ai suoi interagenti e che agisce sulla metarappresentazione ovvero sulla capacità di attribuzione di credenze, paure, desideri e intenzioni ai nostri interlocutori oltre che sulla rappresentazione dei loro stati mentali. Si evince perciò che è possibile una modificazione dell’ambiente cognitivo comune cioè di quell’insieme di fatti condivisi manifesti, percepibili o inferibili ad un individuo e che consentono a quest’ultimo di formarsi un insieme di opinioni alcune delle quali sono maggiormente utilizzate e costruite rispetto ad altre. Proprio la proprietà della pertinenza determina l’attenzione dell’essere umano in un determinato specifico momento della conversazione. A questo punto le componenti che vengono attivate nel corso del dialogo diventano rilevanti e risultano avere differenti gradi di conseguenze contestuali e di sforzi ad esso associati in relazione al peso del processo inferenziale richiesto. In questo sforzo giocano anche un complesso di ipotesi precedentemente esplicitate all’interno del discorso in itinere. Possono essere scelte come contesto diverse origini ed accessibilità: memorie a lungo o breve termine, percezioni, ambiente fisico circostante o informazioni enciclopediche. Queste informazioni enciclopediche contestuali possono compensare il modo indiretto di esprimersi attraverso metafore, iperboli e sineddoche, quindi con dei semplici usi creativi della lingua senza la necessità di ricorrere al doppio livello d’interpretazione degli enunciati letterali e non letterali. La teoria della pertinenza però non tocca ancora gli ambiti relativi al parlante e il contesto comunicativo sociale.
Gli elementi essenziali di una conversazione
In generale i tratti che caratterizzano l’ambiente conversazionale e che sono essenziali da tenere presente per comprendere le dinamiche includono il setting, i tipi partecipanti/agenti ed il tipo d’interazione. Il setting è costituito dai seguenti elementi : tempo, spazio e mezzo di trasmissione. Il tempo e lo spazio nelle interazioni canoniche coincidono. Per canale di trasmissione si intende non soltanto il diverso mezzo comunicativo utilizzato ma anche il tipo di codice lingua (esempio il linguaggio dei segni) e di registro (formale, informale, tipo di lessico) impiegato che contribuiscono ad influenzare la comunicazione in atto. É possibile constatare che nel corso di un’interazione non si mantiene sempre lo stesso tipo di codice ma si riscontra un cambiamento volto a richiamare l’attenzione dell’interlocutore/i. Ciò può avvenire, ad esempio, attraverso l’uso di segni linguistici o modali. Nella vita quotidiana si può osservare, infatti, che molti discorsi iniziano in un modo e terminano in un altro. Ovviamente questo mutamento può essere dovuto dal desiderio di suscitare maggiore interesse e coinvolgimento da parte degli interlocutori modificandone la modalità con cui ci si rivolge loro. Anche i partecipanti/agenti sono connessi strettamente al mezzo comunicativo ed infatti si distinguono due tipi di interazione e precisamente quella tra persona-persona e quella fra persona-macchina-persona. Il primo tipo d’interazione è definita dalle caratteristiche individuali degli interagenti che incidono sulle loro peculiarità sociolinguistiche, sulle loro relazioni reciproche di simmetria, asimmetria, di status partecipazionale o conversazionale relativo al campo delle conoscenze (ad esempio settoriale oppure di linguistica di una lingua non materna) oltre che sulle loro credenze condivise all’interno della loro comunità di appartenenza oppure accumulate dentro la conversazione stessa. Va considerato che in particolare le conoscenze condivise influenzano notevolmente sia la produzione linguistica che la comprensione vicendevole. Un importante parametro di cui tener conto in questo tipo di analisi è sia il numero degli interlocutori che il loro livello di familiarità e di intimità. Una conversazione in famiglia o tra amici non è lineare perché può presentare talvolta dei momenti di passività ed altri di attività da parte dei partecipanti. Inoltre la tipologia d’interazione oltre ad essere correlata al setting ed ai tipi di interlocutori lo è anche al genere discorsivo in atto. Quest’ultimo è caratterizzato dal grado di istituzionalizzazione, dal compito/scopo, dall’argomento affrontato e dal formato di produzione. Un primo tipo d’interazione è quello detto simmetrico in cui i partecipanti sono alla pari per diritti e doveri comunicativi senza che ci sia una figura preponderante rispetto alle altre. Questo modello è caratterizzato dal fatto che al termine di un turno di parola, cioè quando per segnali di natura paralinguistica, sintattica o semantica, è possibile ritenere che chi stava parlando abbia finito ed è dato a tutti i partecipanti il diritto di prendere la parola al turno successivo che verrà occupato da chi interviene per primo. In una conversazione tra più partecipanti non è dato sapere in precedenza chi parlerà prima e perciò s’instaura una competizione per accaparrarsi il primato. Al contrario, nell’interazione asimmetrica, gli interagenti si differenziano per accesso diseguale ai poteri di gestione della conversazione. È possibile talvolta riscontrare una predeterminazione nell’alternanza dei turni oppure la presenza di figure guida e controllori della conversazione che vengono appunto chiamati registi dell’interazione. Questi ultimi hanno il compito di gestire i turni di parola sia nella durata che nel contenuto, spesso orientandolo. Le interazioni asimmetriche si possono differenziare in base alla loro origine che può essere di natura esogena ovvero determinate da fattori esterni (lo status ricoperto nella società, il ruolo professionale) oppure di natura endogena (la personalità, le capacità individuali) che derivano dalla distribuzione fra i partecipanti di mosse forti (iniziali) e deboli (risposte) che vincolano l’organizzazione e l’andamento della conversazione. Ovviamente entrambe le tipologie di origine non sono fra loro indipendenti ma s’intrecciano l’una con l’altra per cui devono essere riconfermate e ricostruite nel corso dello scambio. I fini comunicativi sono socialmente stabiliti, soprattutto nei casi di asimmetria, proprio perché l’obiettivo è per lo più di natura esterna e tende ad essere ritualizzato. Queste finalità esogene possono comportare come conseguenza le modificazioni nella posizione ricoperta all’interno della conversazione oppure il verificarsi di certe decisioni rispetto ad altre. Questi scopi s’intrecciano con i gradi di convenzionalizzazione soprattutto quando questi sono alti, come negli incontri di servizio (ad esempio nelle agenzie, nella posta ecc…) e di istituzionalizzazione (ad esempio nelle aule di tribunale) dove gli schemi d’azione linguistica sono rigidi e con contenuti limitati. È necessario poi separare quei fini che hanno valore collettivo, condivisi da tutti gli aderenti alla conversazione e che pertanto sono maggiormente destinati al successo da quelli con valenza individuale che sono propri di ogni partecipante al dialogo e che di conseguenza non sono sempre accolti. Il tipo di intento che ci si prefigge di realizzare in un’interazione si ripercuote sulle modalità di produzione linguistica usate che sono legate alla scelta dell’argomento trattato ed alle situazioni in cui ci si trova. Molti autori ritengono che nelle conversazioni ordinarie sia quasi sempre riscontrabile un momentaneo ruolo di leadership che è possibile lasciare quando si è stanchi del comportamento dominante. Linell (1991) preferisce parlare di dominanza interazionale per sottolineare disparità di potere per fasi estese del discorso o per la sua globalità. Chiama asimmetrica le disparità dei diritti conversazionali sia locali (a livello cognitivo -implicature o processi inferenziali e a livello linguistico- cotesto, formato di produzione, cambi di codice) che globali (componenti sociolinguistiche di una certa situazione: partecipanti e localizzazioni).
L’importanza della comprensione dello scartamento con la realtà nelle conversazioni
L’apice di una conversazione è quella della violazione di una delle massime griciane che può avvenire anche intenzionalmente come nel caso delle figure (retoriche) o del discorso e nei vari procedimenti retorici come la metafora, la metonimia ed in particolare l’ironia che tradizionalmente si basa sulla negazione e sul distanziamento del significato che le parole veicolano e che pertanto viene definita come antifrasi od inversione semantica. Grice la presenta, insieme alle altre figure del discorso, come elementi che sfruttano le massime per burlarsene. Ossia, l’eloquente tramite l’implicatura conversazionale, quindi lo scarto tra il significato dell’enunciato e quello del parlante, in realtà comunica la proposizione opposta. Ovviamente, ciò ha valore soltanto se l’interlocutore riconosce l’intenzione del parlante e recepisce la beffa. In seguito Sperber e Wilson modificano questa concezione inserendo l’idea di “menzione” o “eco” come componente dell’ironia intendendo ciò che generalmente non è esplicitamente espresso in un enunciato ma che il parlante sottintende per sottolineare qualcosa, che a suo parere, è sbagliato o inadeguato. Esso può riguardare la propria parola o atteggiamento (autoironia) oppure quella degli altri (sarcasmo, parodia ecc..). Giuliani ed Orletti (2009) hanno fornito una rappresentazione separata per delineare l’ironia: una antifrastica per cui il giudizio iniziale verte solo sul contenuto dell’atto linguistico e l’altra interpretazione citazionale in cui la valutazione è relativa all’atto stesso, come ad esempio la critica di un costume sociale. Per analizzare l’ironia in una prospettiva pragmatica è necessario tenere conto sia dell’eventuale ambiguità legata ad un’espressione a causa della discrepanza tra le due tipologie di significati sia del contesto in cui essa viene a trovarsi per cui si rende indispensabile aver presente le seguenti componenti: 〉 il contesto ovvero le menzioni e gli echi, indicatori metalinguistici e metacomunicativi che permettono di rilevare l’uso dell’ironia. 〉 le espressioni prosodiche ovvero quelle determinate dall’intonazione e le espressioni facciali come il riso ed il sorriso. 〉 le persone e i ruoli nell’ironia e quindi chi la usa, cioè il parlante, il ricevente e la vittima. Nel caso dell’autoironia l’eloquente e ed il suo bersaglio coincidono. 〉 lo scopo dell’ironia e cioè il preciso momento nel corso dell’interazione in cui l’enunciato ironico viene pronunciato. 〉 le conoscenze condivise ovvero l’insieme di credenze e conoscenze comuni ai due interagenti coinvolti e le conoscenze specifiche che vengono attivate durante il flusso comunicativo. Ovviamente queste sono diverse a seconda del tipo di gruppo di riferimento sia per il numero dei membri che prendono parte al dialogo sia per il ruolo sociale/culturale da loro ricoperto e che può essere anche ampio (“tutti i cittadini”). Naturalmente tanto più il gruppo è ristretto tanto migliore risulterà efficace. Infatti è più facile che in un gruppo con poche persone condivida le stesse convinzioni ed opinioni nei confronti di alcuni ambienti e ciò permette la comprensione ironica. Quando l’ironia viene riconosciuta ed accettata scatta il riso dell’interlocutore ma in caso contrario essa può assumere valore conflittuale. La contraddittorietà di valori assume caratteristiche di paradossalità. Allora per porre rimedio a talune incomprensioni nella conversazione, un fenomeno di routine sociale che esprime la razionalità dell’agire quotidiano è rappresentato dalle “pratiche di glossa”, ovvero da quel complesso di processi di formulazione espliciti usati dagli interlocutori di volta in volta nel corso di una conversazione, per definire ciò che si sta facendo in quel momento (“sto scherzando”, “per concludere”, “così per dire”, “non siamo al mercato”…). L’uso di queste formulazioni ha la funzione di porre rimedio ad eventuali incomprensioni od ambiguità che possono sorgere nel linguaggio naturale e che pertanto sono entrate come “pratiche” nelle comunicazioni ordinarie. Esse si caratterizzano per: la loro costruzione formale, le loro scelte lessicali, i loro aspetti prosodiaci legati alla sintassi (come la durata e l’intensità delle variazioni dei tratti soprasegmentali) e per gli aspetti sequenziali nella loro costruzione. Ne consegue che da una parte sono ancorate al contesto che assumono nella conversazione e dall’altra alle proprietà del mezzo usato, ossia dall’interazione stessa. Inoltre va notato che non tutti riescono a comprendere l’ironia o le figure retoriche il che può avvenire talvolta per differenze d’abitudine culturale ma purtroppo anche a causa di alcuni deficit. Questi ultimi possono essere conseguenze di incidenti come per i TBI (Traumatic Injury Brain) oppure possono essere riconducibili a malattie come l’autismo. In particolare questi ultimi riscontrano problemi derivanti dalla difficoltà di comprendere i processi pragmatici come l’ironia, i proverbi ed i modi di dire (secondo la ‘teoria della mente’) che possono essere riconducibili ad una carenza dei seguenti meccanismi teorici: coerenza centrale (capacità di individuare i tratti salienti di una conversazione in un determinato ambiente di proferimento), inferenza sociale (comprendere le intenzioni altrui e quindi capire la differenza tra il ‘far finta o scherzare’ e il ‘fare sul serio’) e funzioni esecutive (che oltre a permettere la pianificazione ed il monitoraggio di compiti di alto profilo, non di azioni ripetitive e routinarie, consentono di inibire e controllare gli stimoli esterni modulando e verificando le azioni, che è anche uno dei più importanti ruoli svolti dai lobi frontali). Di conseguenza una debole capacità di coerenza centrale determina la difficoltà di derivazione del significato non letterale di un’espressione, una mancata inferenza sociale impedisce il facile uso nella prospettiva di parlanti di derivare il significato indiretto di un enunciato ed infine una disfunzione esecutiva conduce ad un processo di rigidità e concretezza delle informazioni linguistiche. Infatti da esperimenti neuroscientifici che sono stati effettuati su questi pazienti risulterebbe che l’emisfero destro disponga delle facoltà linguistiche pragmatico-semantiche mentre l’emisfero sinistro, oltre ad esercitare un effetto inibitorio sul destro, si occuperebbe degli aspetti morfosintattici degli enunciati. In seguito all’asportazione dell’emisfero sinistro l’inibizione dell’emisfero destro verrebbe meno mentre le capacità pragmatico-semantiche del linguaggio potrebbero tuttavia continuare ad essere presenti seppure in modo parziale in quanto le informazioni linguistiche non possono mai raggiungere l’emisfero destro specializzato per queste funzioni. Ne consegue che se anche la loro struttura microelaborativa del linguaggio è rimasta intatta quella macroelaborativa presenta dei problemi. In conclusione è possibile dedurre che le parti del cervello coinvolte nell’elaborazione pragmatico-linguistica sono l’emisfero destro e i lobi frontali. A rafforzare questo punto di vista ci sono anche i dati provenienti dallo studio sull’autismo, disturbo dello sviluppo la cui insorgenza solitamente è precoce e che è caratterizzato dalla compromissione della comunicazione sia verbale che non verbale, da problemi nell’interazione sociale, da deficit nella capacità di generalizzare i concetti e nell’immaginare argomenti astratti da cui ne consegue la possibilità di eseguire solo attività ristrette, ripetitive e stereotipate (lo spettro dell’autismo è molto ampio perciò questi deficit presentano diversi livelli di gravità). A causa di questi deficit è possibile riscontrare delle difficoltà negli aspetti pragmatici del linguaggio, della socializzazione e nella metarappresentazione degli enunciati di elementi che consentono la cosiddetta ‘lettura della mente altrui’ o ‘mentalizzazione’. A tal proposito Baron-Cohen, Leslie e Frith (1985) hanno ipotizzato che la sindrome autistica sia, almeno in parte, riconducibile ad una compromissione della ‘teoria della mente’. Infatti, secondo questi autori, la capacità di ‘mentalizzare’ è l’espressione di una teoria della mente innata e modulare. In particolare Leslie sostiene che esiste un meccanismo della teoria della mente (ToMM) responsabile delle costruzioni di M-rappresentazioni o metarappresentazioni inconsce che sono il fondamento della ‘teoria tacita della mente’ e inoltre afferma che il ToMM può essere considerato un macromodulo composto da due sottocomponenti. Il primo consente l’interpretazione finalistica o teleonomica delle azioni di un agente mentre il secondo (che include i concetti di finzione, credenza e desiderio) permette di inferire per interpretare il comportamento di un agente (o rappresentazione dell’atteggiamento proposizionale di una persona) ovvero di quella che viene detta ‘metarappresentazione’. Il ToMM però necessita anche di un meccanismo generale per dominio, il cosiddetto ‘elaboratore di selezione’, che consente di inibire la risposta automatica ad ogni credenza che attribuisce un contenuto vero ad un’affermazione falsa. Pertanto, secondo questa ipotesi, l’elaboratore di selezione consente alle persone di comprendere il reale contenuto dell’enunciato come quello interno a frasi idiomatiche, modi di dire, proverbi ed espressioni sarcastiche. Questa ipotesi viene confermata dai risultati provenienti da alcuni esperimenti che hanno posto a confronto soggetti autistici e soggetti normali. È possibile spiegare le differenti prestazioni che sono emerse grazie alla constatazione che i bambini normali di 4 anni di età presentano un ToMM intatto e un elaboratore di selezione maturo che permette loro di fare i meccanismi di metarappresentazione degli enunciati. A 3 anni i bambini dispongono di un ToMM intatto ma di un elaboratore di selezione ancora immaturo mentre i bambini autistici presentano un ToMM compromesso ma possiedono un elaboratore di selezione sufficientemente maturo per svolgere alcuni compiti come quello del riconoscimento della ‘foto datata’ anche se non consente loro di svolgere correttamente i compiti riguardanti una ‘falsa credenza’ (il che poi si estende anche alla non comprensione non letterale di un’espressione linguistica). Ciò nonostante, come fa notare Frith (2012) l’origine certa di questa malattia è ancora ignoto ma si stanno compiendo diversi studi al riguardo.
Conclusioni
In conclusione è possibile riscontrare che la comunicazione in generale ed in particolare le conversazioni sono un complesso processo di informazioni che si articolano non soltanto attraverso il semplice proferimento di frasi ben formate. È anche necessario che gli enunciati presentino all’unisono tanto una corretta coesione strutturale (microelaborativa ovvero equilibrio negli accordi morfosintattici delle parole) quanto una buona coerenza discorsiva (macroelaborativa che si rispecchia con un’organica organizzazione degli argomenti di un discorso). È utile tenere conto di quanto detto ogni volta che si interagisce con il prossimo sia per conversazioni de visu che in quelle per iscritto come ad esempio nelle chat per evitare che si generino dei fraintendimenti.
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