Cosa rivela di noi l’interazione uomo-robot?
Gli esseri umani pensano che le macchine possano pensare, ovvero attribuiscono a loro credenze e stati mentali? Cosa ci rivela della nostra natura di esseri umani la risposta a questa domanda?
La debolezza delle credenze risiede
assai più nella vaghezza delle cose proposte
che non nella loro incertezzaPaul Valéry
Esistono fenomeni imprevisti e non attesi; atteggiamenti che violano le convinzioni che per tanto tempo abbiamo archiviato; singolarità e stravaganze che possiamo rilevare intorno a noi e in cui siamo portati a cercare una spiegazione di quanto avvenuto. Tra queste, le peculiarità comunicative che si instaurano tra uomo e robot: niente cellule, tessuti, organi, soltanto un insieme di viti, fili, bulloni, microcip e transistor capaci globalmente di innescare e far risuonare processi cognitivi ancestrali nell’essere umano.
Il processo coinvolto, in questo frangente, riguarda la Teoria della Mente (ToM), un’abilità che ci rende capaci di attribuire stati mentali ad altri; la “spina dorsale” dell’interazionein cui una rappresentazione concettuale trapassa in un’altra su un largo rangedi episodi: le forti sintonizzazioni emotive consentono alla madre di percepire i bisogni del bambino, così come la capacità diUlisse a “guardare” con l’occhio di Polifemo ricalcandone la sua logica.
Un’esperienza di dislocazione percettiva che da forma ad uno spazio sensibile in cui si dilatano i limiti fisici del corpo.
Ma perché questa abilità prende “vita” anche nei confronti di cosenon umane, come i robot?
Il percorso dell’Interazione Uomo-Robot (HRI) ben lungi dall’essere una strada senza criticità, allo stato attuale possiamo paragonarlo ad un labirinto, non perché esso sia il frutto di una strana infezione filosofica che può agire in un senso o nell’altro con risultati incerti e speculativi, piuttosto, laquestione dell’HRI è fondare una conoscenza che unifichi macchine ed esseri umani in un dinamismo interattivo inarrestabile in cui – parafrasando Caci e collaboratori (2007) – «il pensare al robot»si trasformi in «pensare con il robot».
E, dunque, un’interazione che non conquista l’uomo solo sul piano logico-razionale ma, emozionalmente, in maniera sottocutanea. Stupore e piacevolezza racchiusi in una sedazione empatica, come un riflesso divino, ma che una volta raggiunto il suo apice precipita in maniera verticalizzante, come una maledizione: l’uncanney valley, una sensazione perturbante che declina le sensazioni positive dell’interazione.
Se volessimo spiegarlo sotto la lente speculativo-religiosa è come se l’uomo,creando con le proprie mani un altro essere “a sua immagine e somiglianza”,tagliasseil cordone ombelicale con Dio: il suo peccato.
Un tradimento alla matrice evoluzionistica dovuto ad un intervento divino?
Per non cadere vittima di improbabili misticismi è indispensabile una decodificazione del nostro inconscio, ovvero dei meccanismi che lo sottendono, proprio quelli che ci portano a pensare al robot come un “oggetto mentale” e, sotto molti aspetti, ad interagire con lui con una stima cognitiva che modella quella di un essere umano… come se, durante l’interazione, ci dicesse: NON SONO UN ALGORITMO!
EBOOK | INDICE
Prefazione, del dott. Marco Alessandro Villamira; Introduzione, di Claudio Lombardo |