Trauma, Sviluppo Traumatico e Dissociazione

Dalla disregolazione emozionale  alla dis-integrazione delle funzioni cognitive superiori

 

1 – Psicopatologia della dissociazione

Il termine dissociazione in psicopatologia significa:
–          una categoria diagnostica, i Disturbi Dissociativi del DSM;
–          un gruppo di sintomi, i sintomi dissociativi;
–          alcuni processi patogenetici causati dalle esperienza traumatiche, che interferiscono con l’integrazione delle funzioni psichiche.

I processi patogenetici dissociativi producono sintomi dissociativi, che si ritrovano in varie categorie diagnostiche. Sintomi e disturbi dissociativi sono ampiamente correlati con esperienze traumatiche. Si intende per trauma una esperienza minacciosa estrema, insostenibile e inevitabile, di fronte alla quale l’individuo è impotente, che produce una esperienza di disconnessione e disintegrazione. Nel corso dello sviluppo, il trauma può consistere in comportamenti aggressivi che il caregiver manifesta verso il bambino; o nella sua mancata responsività emotiva alle richieste del bambino dovuta a una condizione mentale di distacco, poiché il caregiver è immerso nei suoi lutti non elaborati; o infine nel contagio emotivo dato dalla proiezione di contenuti mentali angoscianti scissi e non elaborati, esiti dei suoi conflitti pregressi.

La dissociazione è un processo di dis-integrazione, la perdita della capacità della mente di integrare alcune sue funzioni superiori, e numerose osservazioni cliniche stabiliscono un legame unifattoriale di causa-effetto tra trauma e dissociazione (Dutra et al., 2009). Tuttavia tale rapporto causale non è univocamente dimostrato (Kihlstrom, 2005); esso esiste, ma è probabilmente multifattoriale e non lineare (Giesbrecht & Mercklebach, 2008). La dissociazione non è una difesa dal dolore del trauma, ma una disintegrazione della coscienza e della intersoggettività, e quindi un evento patogeno che costituisce un fattore di rischio in tutto l’arco della vita per il DPTS e la patologia legata ai traumi e alla dissociazione. Essa comporta difficoltà nelle relazioni interpersonali, deficitaria capacità di regolare le emozioni in caso di stress, sviluppo difettoso e carente esercizio della mentalizzazione (Liotti & Farina, 2011).

Liotti & Farina (2011) e Farina & Liotti (2011), riprendendo Holmes e collaboratori (2005), distinguono due categorie di sintomi nella dissociazione:

–          i sintomi da distacco (detachment), che consistono in alterazioni della coscienza fenomenica, quella in prima persona, e sono riconducibili a una sindrome di alienazione, da sé, dal corpo, e dal mondo. Comprendono distacco da sé e dalla realtà, depersonalizzazione auto-, somato- e allopsichica (quest’ultima è la derealizzazione), ottundimento emotivo (emotional numbing), dejà vu, out of the body experience (OOBE, italiano autoscopia), dispercezioni. Sono i sintomi del Disturbo da Depersonalizzazione/Derealizzazione del DSM-V e del DPTS. Essi sono causati da processi di dis-integrazione delle funzioni cognitive superiori attivati da emozioni dirompenti in situazioni minacciose ed estreme;

–          i sintomi da compartimentazione (compartmentalization), che riguardano la coscienza in terza persona, di accesso o cognitiva, relativa al recupero di rappresentazioni mentali tramite il linguaggio, e sono dovuti alla separazione e alla segregazione delle funzioni superiori come la memoria, l’identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari. Comprendono amnesie dissociative, flashback traumatici, alterazioni del controllo delle emozioni e dell’unità della coscienza (personalità multiple). Nel DSM-V corrispondono all’Amnesia Dissociativa –  che include la Fuga Dissociativa dei DSM precedenti –  al Disturbo Dissociativo dell’Identità e al DPTS. Altri sintomi rientrano nel Disturbo da Sintomi Somatici e Correlati (disturbi da conversione, dolori psicogeni, somatizzazioni), e sono espressione della dissociazione somatoforme. Vi sono poi l’alessitimia post-traumatica e la dismorfofobia, nelle quali è compromessa l’integrazione tra le variazioni somatiche generate dalle emozioni e dalla regolazione omeostatica e la loro rappresentazione mentale; e i sintomi che derivano dalla disgregazione delle funzioni cognitive superiori, quali la mentalizzazione, la metacognizione, la memoria autobiografica, l’intersoggettività, poiché il trauma inibisce la mentalizzazione.

I sintomi da distacco possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, mentre quelli da compartimentazione sono conseguenza del trauma evolutivo e alterano lo sviluppo della personalità, sì da potersi parlare di dissociazione strutturale della personalità.

1.1 – Incertezze diagnostiche e dimensione dissociativa

La categoria del DPTS (Disturbo Post-traumatico da Stress), comparsa nel DSM-III del 1980, ha reintrodotto nei sistemi diagnostici internazionali la relazione tra traumi e disturbi psichici. Tuttavia essa si è rivelata insufficiente per descrivere situazioni di traumi ripetuti nel tempo, essendo stata creata per descrivere le reazioni a un singolo evento traumatico o a un numero limitato di traumi che si verificano in un arco di tempo circoscritto. Il DPTS non raccoglie gli esiti di esperienze traumatiche ripetute e in periodi lontani nel tempo dal momento dell’osservazione quali quelli che si verificano in casi di abuso e trascuratezza nell’infanzia e che configurano il developmental trauma, tradotto in italiano come sviluppo traumatico. La Herman (1992) ha proposto la categoria di Disturbo  Post-traumatico da Stress complesso (cPTSD, italiano DPTSc), per indicare eventi traumatici multipli in intervalli di tempo prolungati, che sono di tipo interpersonale, come gli abusi e i maltrattamenti inflitti all’interno di relazioni alle quali la vittima non può sottrarsi, quali quella tra vittima e carnefice in un carcere in cui si pratica la tortura, o quella tra bambino e genitore maltrattante. Van der Kolk e collaboratori (2005) hanno cercato senza successo di introdurre nel DSM-IV il quadro analogo del Disturbo da Stress Estremo Non Altrimenti Specificato (DESNOS, Disease of Extreme Stress Not Otherwise Specified, italiano DSENAS), per indicare la complessa e fluttuante patologia data dai traumi prolungati di tipo interpersonale, e caratterizzata dalla triade sintomi dissociativi della coscienza, somatizzazioni e alterazioni della regolazione emotiva; nell’età evolutiva esso si presenta come Disturbo Traumatico dello Sviluppo (DTS). Queste categorie non sono state accettate nel DSM perché incerte, problematiche e di difficile collocazione tra disturbi d’ansia, dissociativi, somatoformi e di personalità. Infatti molti, tra cui la Herman, ritengono che il DPTSc o DESNAS che dir si voglia andrebbe inserito tra i Disturbi Dissociativi, o in alternativa tra i Disturbi di Personalità, in quanto vi è una variante del Disturbo di Personalità Borderline associata a storie di sviluppo traumatiche che presenta sintomi dissociativi più evidenti rispetto ai pazienti borderline senza traumi infantili.

Secondo Liotti & Farina (2011) e Farina & Liotti (2011) i fenomeni dissociativi si possono presentare oltre che nel DPTS, nei Disturbi Dissociativi e nel Disturbo da Sintomi Somatici, anche in altri quadri clinici in cui comunque si ritrovano storie di traumi evolutivi, come la schizofrenia, i disturbi di personalità, i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia e i disturbi del comportamento alimentare. La dissociazione su base traumatica può configurare una dimensione psicopatologica, la dimensione dissociativa o dimensione dissociativo-traumatica, che può associarsi ad altri disturbi peggiorandone la prognosi.

Lo sviluppo traumatico è disorganizzante a causa della cronica iperattivazione del sistema parasimpatico, che comporta la continua messa in atto di processi di tipo dissociativo, per il ripetersi di situazioni di minaccia insostenibile. I processi dissociativi ostacolano la fisiologica integrazione della vita psichica introducendo frammentazione e discontinuità nell’attenzione, nella coscienza, nella memoria. Se essi perdurano cronicamente durante lo sviluppo, possono compromettere le capacità integrative dell’individuo, producendo i sintomi da compartimentazione e la dissociazione strutturale della personalità. Quest’ultima può persistere in una condizione di  latenza per il sovrapporsi di meccanismi difensivi e compensatori, basati sull’evitamento delle potenziali esperienze traumatiche e sul controllo – tramite la punizione o l’accudimento – della figura traumatizzante; ma scompensarsi di fronte a un successivo trauma massivo, col riaffiorare del trauma originario. I ricordi delle esperienze traumatiche sfuggono a una collocazione nel sistema della memoria, e non si integrano con le altre informazioni e significati che costituiscono il senso di sé e l’identità della persona. Essi costituiscono un corpo separato che conduce una vita parallela rispetto all’identità principale, fino a organizzarsi in distinte personalità multiple. In alternativa l’evento traumatico viene scomposto nelle sue componenti sensoriale, somatica, cognitiva, emotiva, essendone preclusa una registrazione unitaria. I processi di disregolazione omeostatica producono la dissociazione somatoforme, caratterizzata da sintomi somatici, per la deficitaria regolazione dell’attivazione corporea (arousal) durante gli stati emotivi caotici e disgregati, l’alterazione dello schema corporeo e l’impressione di significati drammaticamente negativi nell’immagine corporea: the body keeps the score, il corpo segna il punteggio (van der Kolk, 1994). Si costituisce in ogni caso una condizione di vulnerabilità, che rende l’individuo più soggetto all’effetto dis-integrativo di traumi successivi, che provocano i vari sintomi del DPTS  e dei disturbi dissociativi.

2 – Eziopatogenesi della dissociazione nella relazione di attaccamento

La disregolazione nella relazione di attaccamento è la situazione da cui si sviluppa il trauma relazionale precoce, il primo dei trami cumulativi che conducono al Disturbo Traumatico dello Sviluppo e alla patologia dissociativa. Questa è riconducibile a una dissincronia, a un dismetria, a una mancanza di sintonizzazione (attunement, Stern, 1985) nella relazione di accudimento. Nella teoria di Schore (2000a, 2001a), il fine precipuo del sistema d’attaccamento così com’è descritto da Bowlby (1969) è mantenere la regolazione omeostatica della diade infante-caregiver. Secondo Sroufe (1989, 1996) il Sé dell’infante vive all’interno della matrice organizzativa costruita dalle cure materne intorno a lui, in modelli strutturati di comportamento che fanno spazio alla sua crescente partecipazione, e a un vago riconoscimento del proprio ruolo nella determinazione delle azioni, in un percorso che lo porta alla progressiva acquisizione dell’autoregolazione. La ripetizione delle esperienze di regolazione o affetto positivo  stabilizza il nucleo originario di ciò che diventerà il Sé, l’organizzazione interna di base della personalità, che si costituisce intorno alla regolarità dell’esperienza di mantenimento dell’omeostasi psico-fisiologica. I modelli operativi complementari del Sé e dell’oggetto non riguardano azioni o pensieri, ma piuttosto le aspettative concernenti la regolazione di base e l’affetto positivo anche di fronte alle sfide ambientali. Col tempo l’infante giunge prima a riconoscere la competenza del Sé nel sollecitare l’assistenza regolatrice del caregiver e nel perturbare e ristabilire l’equilibrio interno per conto proprio. I primi modelli di organizzazione diadica costruiti dalla madre promuovono i modelli successivi di autoregolazione, e questi a loro volta prefigurano i modelli più tardivi di adattamento sociale – ovvero l’organizzazione da parte del bambino delle aspettative, degli atteggiamenti, delle emozioni e del comportamento – anche all’esterno della famiglia, strutturando  lo stile relazionale della vita adulta. Per Beebe & Lachmann (1997, 2002), quando il caregiver e il bambino riescono a sintonizzare le proprie modalità di funzionamento affettivo e temporale, ciascuno ricrea uno stato psicofisiologico simile a quello del partner, e l’infante impara a riconoscere, ricordare, attendersi, generalizzare e rappresentare i modelli tipici di interazione. Questi modelli si costituiscono da processi di astrazione, riconduzione alla media e generalizzazione delle sequenze di interazione tipiche, e organizzano i comportamenti comunicativi non solo del bambino, ma anche delle figure d’accudimento. Sono chiamati con diversi nomi dai diversi autori: unità di relazioni oggettuali interiorizzate, costituite dalla triade oggetto-Sé-affetto (Kernberg, 1975), internal working models (Main, Kaplan & Cassidy, 1985), rappresentazioni d’interazione generalizzata ( RIG, Stern, 1985), rappresentazioni diadiche interattive (Beebe & Lachmann, 2000).

In ogni caso le strutture diadiche d’interazione organizzano il comportamento, la pianificazione degli eventi, la previsione, le aspettative. Esse sono codificate nella memoria implicita procedurale del lobo prefrontale orbito-mediale e nel lobo limbico dell’emisfero destro (Schore, 2000b). Esse costituiscono una traccia, in base alla quale vengono reinterpretate e riordinata le esperienze in entrata, capace di modificarsi anche nel corso dell’età adulta (Schore, 2003b), perché la crescita emozionale comporta una continua ristrutturazione delle relazioni tra persona e ambiente, e le neuroscienze confermano il concetto di sviluppo interminabile di Emde (1988). Le successive rappresentazioni del Sé e dell’oggetto si basano sui modelli precoci di interazione, che sono alla base della vita affettiva e del carattere dell’individuo. Le persone tendono a scegliersi dei partner e a formare delle relazioni che costituiscono una replica dei modelli operativi preesistenti, che agiscono a livello inconscio; inoltre i bambini e poi gli adulti tendono a suscitare degli input che confermano gli schemi interattivi preesistenti. Tutto ciò costituisce la radice della coazione a ripetere.

2.1 – l processo di regolazione diadica interattiva nello sviluppo normale

Le interazioni tra madre e bambino oscillano continuamente tra gradi maggiori e minori di coordinazione, con una flessibilità che va dall’esatta corrispondenza alla disgiunzione. Fondamentale per la costruzione delle rappresentazioni è la possibilità di riconoscere e ordinare i modelli, di fare delle previsioni, di aspettarsi ciò che è prevedibile e invariante, di crearsi delle categorie in base a tutto questo (Beebe & Lachmann, 2002) Si verificano fasi di assenza di sintonizzazione negli scambi comunicativi della diade, con rottura del legame di attaccamento, anche in seguito a momenti affettivi intensi, che hanno un significato evolutivo, ma anche un effetto destrutturante sull’omeostasi emozionale della diade, per una violazione delle aspettative. La perdita della sintonizzazione induce nel bambino una reazione di stress (Schore, 2001b, 2002). Il caregiver attento e responsivo sa come dosare la stimolazione e regolare il proprio livello di attivazione, ad esempio allontanando lo sguardo. Sa come concedere al bambino dei momenti di recupero, di alleviamento dell’intensità dell’interazione. E soprattutto sa come mettere in atto dei meccanismo di riparazione interattiva, che trasformano l’emozione negativa in positiva.  Rotture del legame di attaccamento e momenti affettivi intensi sono inevitabili nelle vicissitudini della diade, e promuovono un dinamismo nella trasformazione delle rappresentazioni. La madre e il bambino negoziano continuamente a livello diadico una transizione tra stati affettivi, cognitivi e comportamentali. Il risultato è che il processo di sperimentare di nuovo un affetto positivo dopo un’esperienza negativa insegna al bambino che è possibile superare e gestire la negatività (Malatesta & Magai, 1991). Questi meccanismi di recupero costituiscono il processo di riparazione interattiva, in cui il caregiver  trasforma l’emozione negativa in positiva, e trasmette l’aspettativa che la mancanza di sintonizzazione emotiva possa essere recuperata. Nel bambino si stabilisce una aspettativa di fiducia nella sostanziale bontà e soddisfacitorietà delle relazioni, e nel fatto che i momenti di frattura e desincronizzazione possano essere riparati e recuperati. Aver acquisito la fiducia nella possibilità di essere regolato attraverso l’altro mette gradualmente il bambino nella condizione di acquisire le competenze per regolarsi da solo. La struttura relazionale infante-caregiver comporta fin dall’inizio un’integrazione tra autoregolazione e regolazione diadica interattiva. Col procedere dello sviluppo, l’infante espande sempre di più le aree in cui è in grado di autoregolarsi. Attraverso una relazione di attaccamento sicuro con una figura che lo accudisce in maniera preferenziale, sintonizzata dal punto di vista psicobiologico e che svolge una funzione di regolazione, il bambino impara a minimizzare gli affetti negativi, a sperimentare quelli positivi, ad amplificare questi ultimi nell’interazione, e ad aspettarsi che le fasi di allontanamento e frattura della sintonizzazione emotiva siano transitorie e recuperabili. A  questo modo si costituiscono delle rappresentazioni diadiche interattive fondamentalmente positive, che un domani consentiranno all’individuo adulto di sapersi regolare da solo o in alternativa attraverso l’altro se questo è emotivamente disponibile, e di avventurarsi fiduciosamente nel complesso universo delle relazioni.

2.2 – Reazioni emozionali, viscerali, endocrine alla disregolazione affettiva

Le interazioni disfunzionali all’interno della diade mettono in moto una serie di modificazioni a cascata il cui esito è la compromissione della maturazione dipendente dall’esperienza del cervello o la carenza in alcune strutture regolative fondamentali, che in ultimo alterano la percezione che il soggetto ha di se stesso e quindi l’integrità della sua consapevolezza di sé e del mondo.

La visione del volto della madre innesca una scarica di endorfine prodotte dall’adenoipofisi nel cervello in via di sviluppo del bambino. Esse  sono le responsabili biochimiche della piacevolezza delle relazioni sociali e del legame di attaccamento, poiché agiscono direttamente sui sistemi di ricompensa dopaminergici sottocorticali, che amplificano l’intensità delle emozioni positive. La dopamina rilasciata dalla formazione reticolare nell’area tegmentale ventrale innesca a sua volta la secrezione di CRF e la secrezione di noradrenalina da parte del locus coeruleus, potenziando la vigilanza e l’attivazione del sistema simpatico. Tuttavia il caregiver sufficientemente responsivo modula la vigilanza, il tono edonico e l’attivazione comportamentale in modo che essi non siano eccessivi e siano sostenibili da parte dell’infante.

Le rappresentazioni diadiche interattive funzionano da regolatori biologici che presiedono all’equilibrio omeostatico. Situate secondo Schore nel lobo prefrontale orbito mediale di destra, esse influenzano il lobo limbico, l’amigdala, il giro del cingolo, l’ipotalamo, e poi giù giù il grigio periacqueduttale, i nuclei del vago, l’ipofisi, e quindi l’espressione viscero-somatica degli stati emotivi e la loro percezione a livello cosciente. Nel lobo limbico esse entrano a far parte della memoria implicita o procedurale; questa ha un sistema di codifica separato rispetto alla memoria esplicita (dichiarativa), semantica o episodica, che implica la rappresentazione cosciente; esse quindi svolgono la loro attività a livello inconscio. Rappresentazioni diadiche interattive di uno stato di sofferenza, di asincronia, di mancanza di sintonizzazione materna e di inadeguata responsività empatica si traducono in stati di disregolazione, disintegrazione delle rappresentazioni di sé e dall’altro e alterazione delle percezioni corporee (Schore, 2003b, 2009b).

Il sistema fronto-limbico media la rappresentazione di informazioni altamente integrate sullo stato dell’organismo. Le funzioni del sistema di controllo dell’attaccamento sono associate con lo stato di vigilanza dell’organismo, dipendente dall’ARAS (Ascending Reticular Activating System), e con la valutazione degli stati dell’organismo e della situazione omeostatica viscerale da parte del lobo limbico e dei nuclei mesencefalici. L’area prefrontale agisce come centro principale del controllo gerarchico del sistema nervoso centrale sulle branche simpatica e parasimpatica del sistema nervoso autonomo. La corteccia prefrontale orbito-mediale proietta sull’amigdala in un circuito di inibizione reciproca (Ledoux, 1996). Stati di disregolazione scatenati dallo stress di una relazione asincrona e non responsiva sottraggono l’amigdala al controllo frontale, alterando la funzione di valutazione degli stimoli (appraisal) e abbassando la soglia di innesco delle emozioni della rabbia e della paura. Ciò provoca a sua volta in un circolo vizioso una ulteriore disregolazione dei sistemi simpatico e parasimpatico, che si accompagna allo stato di alterato arousal mediato dall’ARAS. A livello del giro del cingolo e dell’insula, l’alterato controllo prefrontale provoca un disturbo della modulazione della sensazione del dolore e della produzione di endorfine.

L’infante sperimenta la carenza delle cure materne come una frustrazione dell’aspettativa che le rotture relazionali vengano riparate e si ristabilisca un armonico flusso comunicativo con il caregiver e reagisce con un aumento del livello di vigilanza e del tono autonomico simpatico adrenergico e noradrenergico e con una iperincrezione di cortisolo, e quindi con una reazione omeostatica di risposta allo stress. Essa consiste nella secrezione di noradrenalina (da parte del locus coeruleus), adrenalina, glutammato (mediatore eccitatorio) e CRF (Corticotrophin Releasing Factor). Il fattore di liberazione delle corticotropine attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene provoca rilascio di ACTH a livello dell’ipofisi e increzione di cortisolo a livello cortico-surrenale, aumento della pressione e della frequenza cardiaca, aumento del ritmo respiratorio, vasodilatazione periferica, aumento del tono muscolare, ipersudorazione, stato di arousal. Il sistema simpatico produce una risposta attiva, catabolica e ad alto dispendio energetico, una reazione di allarme, un segnale di angoscia, che vogliono richiamare l’attenzione del fornitore di cure per suscitare una risposta regolativa riparatrice. Il bambino si trova in uno stato di terrore-paura, la diade in una condizione di iperattivazione che si amplifica reciprocamente nei due componenti. Il richiamo disperato può avere l’effetto voluto, e suscitare il ripristino delle cure materne ottimali e dello stato di omeostasi fisiologica, oppure fallire nel suo intento. In tal caso subentra una risposta di immobilità ipertonica, il congelamento (freeezing), o reazione di immobilizzazione nell’animale, che viene messa in atto quando sono precluse le vie dell’attacco (fight) e della fuga (flight). Le quattro “f” (fight, flight, freezing e faint) riassumono per gli autori britannici la reazione al trauma, essendo le prime tre dovute all’ipertono simpatico, la quarta, lo svenimento, alla reazione vagale.

2.3 – La risposta parasimpatica di dissociazione

La fase di immobilità cataplettica è sostenuta dal nucleo vagale dorsale, in una reazione ipoattiva-trofotropica-anabolica, caratterizzata da immobilizzazione, rallentamento del metabolismo, conservazione dell’energia. Gli elevati livelli di oppiacei attutiscono e confondono il dolore e provocano una inibizione generalizzata fino all’arresto di alcune funzioni. L’individuo coarta la sua attività e si rende invisibile per mantenere un livello minimo di omeostasi e sopravvivere.

L’arcaica risposta vagale dorsale causa la disconnessione temporanea tra le strutture superiori corticali della percezione consapevole e il sistema limbico-amigdalo-mesencefalico che scatena le risposte difensive.  Si traduce sul piano comportamentale in uno stato di terrore panico, di intorpidimento, immobilità, ritiro e restringimento dei campi della coscienza e degli affetti. Il dolore è dato dall’esperienza dell’abbandono, della perdita del supporto emotivo da parte del fornitore di cure.

Il parasimpatico, secondo la distinzione di Porges (2001, 2003), presenta tre livelli di regolazione autonomica. Un primo livello è dato dal vago più primitivo, quello rettiliano, che si origina dal nucleo dorsale laterale, ed è specializzato in reazioni meno sofisticate di immobilizzazione e rallentamento del metabolismo, della vigilanza e della reattività organismica. Il secondo livello è dato dal sistema di mobilizzazione, catabolismo e attacco-fuga, ed è mediato dal simpatico. Infine vi è il vago più evoluto, che ha origine a livello del nucleo ambiguo, il vago smart, o intelligente, cui si deve una influenza inibitoria, modulatoria e calmante anche del simpatico, e una reazione di smorzamento dello stress che rende possibile il coinvolgimento positivo ed eccitante senza difensività o attacco, le cure genitoriali, i legami di affiliazione e i comportamenti di cooperazione.

La risposta allo stress mediata dal vago rettiliano è basata su una regolazione puramente conservativa: l’individuo si inibisce immobilizzandosi per evitare l’attenzione, cerca di diventare invisibile e mantiene l’omeostasi al livello più basso per far fronte a uno stato esterno di iperattivazione crescente, o di imprevedibilità destrutturante. Secondo Brown (2006) e Schore (2009a) il restringimento della coscienza, il deficit nell’intepretazione degli eventi e l’alterato ricordo di essi sono dovuti alla disconessione tra attivazione emotiva (amigdala), processi di attribuzione di significato (corteccia prefrontale destra), memoria implicita (ippocampo) e memoria dichiarativa (corteccia frontale e prefrontale sinistra).

Se non avviene una riparazione interattiva della disregolazione relazionale, il cervello è esposto a lungo all’effetto di neurotrasmettitori tossici. Noradrenalina e cortisolo, che non sono neurotossici quando sono prodotti in sequenza, lo diventano quando sono secreti contemporaneamente per effetto di traumi ripetuti. Essi inibiscono la neurogenesi e la differenziazione delle cellule nervose, tramite l’inibizione dei fattori di crescita nervosa (Nerve Growth Factor, BDNF), ostacolano lo sviluppo dendritico e la formazione di sinapsi, attivano azioni di potatura (pruning) delle connessioni nervose esistenti e inducono fenomeni di morte neuronale per apoptosi. Quest’ultimo effetto è dato anche dal il glutammato, che attiva il recettore eccito-tossico dell’N-metil-D-aspartato (NMDA). La neurotossicità si esercita soprattutto sull’ippocampo, sede della memoria a lungo termine, provocandone l’atrofia (.

Il giro del cingolo anteriore e l’insula regolano le componenti sensoriali-affettive, e quindi la capacità di percepire le sensazioni in maniera adattiva e di modulare il dolore. La rabbia narcisistica del borderline è associata all’esperienza di disregolazione di un dolore corporeo eccessivo. Un sistema prefrontale orbito-mediale evolutivamente maturo modula le aree inferiori che generano stati affettivi positivi e negativi, ma una corteccia orbito-frontale destra compromessa è vulnerabile a disturbi nella regolazione della paura e dell’aggressività (Schore 2003a).  La corteccia frontale orbito-mediale regola il grigio periacqueduttale, l’ipotalamo, il cingolo anteriore e l’insula, e attraverso di essi l’elaborazione remota del dolore e la gestione dello stimolo doloroso; influenza l’ARAS, e quindi lo stato di vigilanza; i centri viscerali (di nuovo l’ipotalamo, il PAG, il locus coeruleus, i nuclei del vago), e quindi l’equilibrio autonomico e la secrezione endocrina, ivi inclusa la vasopressina, elevati livelli della quale potenziano le risposte di immobilizzazione. La disfunzione della corteccia prefrontale orbito-mediale comporta la disregolazione della vigilanza che caratterizza l’alterata gestione della paura e dell’aggressività nel DPTS, nel disturbo di personalità borderline e nel disturbo di personalità antisociale. Ma soprattutto determina la perdita di controllo delle attività autonomiche e l’alterazione della mappa integrata dello stato corporeo e del rapporto mente-corpo.

3 – Trauma relazionale e funzioni cognitive superiori

L’esperienza del trauma relazionale – nella forma dei microtraumi cumulativi, dell’abuso e della trascuratezza – incide in senso negativo sullo sviluppo dipendente dall’esperienza delle aree del cervello destro adibite alla regolazione affettiva, e sede della memoria implicita delle rappresentazioni diadiche interattive. Le proiezioni discendenti della corteccia prefrontale orbito-mediale e del cingolo anteriore sull’amigdala, sull’ARAS e strutture regolatorie autonomiche sottocorticali (ipotalamo, nuclei del vago) maturano durante l’infanzia, e le esperienze relazionali traumatiche possono indurre una potatura eccessiva di queste connessioni. La semplificazione eccessiva dei circuiti fronto-limbico-sottocorticali facilita i processi dissociativi.

Un’amidgala fuori dal controllo corticale abbassa la soglia d’innesco della risposta allo stress. A sua volta l’elevato livello ematico di cortisolo associato alla noradrenalina inibisce la funzione dell’ippocampo, determinandone alla lunga ipotrofia e diminuzione della memoria dichiarativa dei ricordi peri-traumatici. Questo spiega la conservazione della memoria implicita (con sede nel lobo orbito-frontale destro) e la perdita della memoria esplicita (ippocampo) degli eventi traumatici. L’aumentato livello di vigilanza dell’ARAS predispone anch’esso ad una eccessiva suscettibilità agli stressor, e concorre con il fattore precedente a determinare una intolleranza alla frustrazione. L’amigdala iperattiva causa facilitazione dei sistemi operativo-emozionali della rabbia e della paura, e quindi discontrollo degli impulsi.

Secondo van der Kolk (1996) i ricordi relativi al trauma sono codificati in maniera diversa rispetto alla memoria esplicita autobiografica, in una memoria speciale, a causa dello stato di iperattivazione che li caratterizza. Il deposito e il recupero mediante la memoria semantica ed episodica sono interrotti, e l’esperienza traumatica è immagazzinata come stati emozionali e come senso-percezioni indelebili (sensazioni somatiche, immagini visive, suoni, odori), separate dalle altre esperienze percettive e non organizzate in un tutto unificato. I contenuti della speciale memoria traumatica sono fissi, inalterabili, non simbolizzabili, atemporali, e riemergono in forza dell’attivazione data da stimoli associati all’originaria scena traumatica.

L’eccesso di stimolazione e l’insostenibilità del dolore e della paura causano secondo Bohleber (2010) il blocco delle funzioni integrative della memoria, dando luogo a stati di coscienza dissociati e all’esclusione dalla coscienza delle esperienze traumatiche. Questo processo ha a che fare con i dati grezzi, immagazzinati come ricordo traumatico, che essendo dissociati e scissi dalla coscienza normale non vanno incontro a una elaborazione e a un continuo rimaneggiamento come gli altri ricordi. Le funzioni integrative della memoria nella situazione traumatica sono messe fuori uso dall’eccitazione eccessiva, producendo uno stato dissociato del Sé. Quando questo stato del Sé si riattiva, per l’occorrenza di input similari a quelli dell’esperienza traumatica, i ricordi traumatici possono affiorare di colpo alla coscienza, come memorie intrusive, flashback, incubi attinenti all’evento in apparenza dimenticato, che non sono repliche esatte dell’esperienza, ma mescolano immagini mnestiche e fantasie inconsce angosciose.

Le rappresentazioni diadiche interattive traumatiche continuano a influenzare la vita dell’individuo  pur agendo al di fuori della coscienza: impediscono la codifica dei ricordi peritraumatici, e possono intrudere improvvisamente nella coscienza quando richiamate da un evento analogo. Ma soprattutto esse si organizzano nell’evitamento difensivo dell’evento destrutturante, e quindi indirizzano il comportamento sulla base dell’aspettativa dell’evento stesso e della sua catastroficità. Come nel mito di Edipo, è proprio l’evitamento dell’evento traumatico che lo riattualizza, e la coazione a ripetere produce la profezia che si autorealizza. Questo è il meccanismo dei circoli viziosi relazionali e delle strutture caratteriali patologiche, che si evidenziano nel circuito transfert-controtransfert della relazione analitica, dove possono essere affrontati e interpretati. Se l’emozione strutturante è la paura, essa organizza l’esperienza inconscia dell’individuo attorno a uno stato di allarme, che comprende la sgradevole aspettativa che possa ripetersi l’evento traumatico che ha segnato questo stato del Sé. Una complessa rete di razionalizzazioni giustifica e protegge l’evitamento delle situazioni potenzialmente traumatiche. E’ quella che Winnicott (1965) chiama l’ipertrofia dell’intelletto, che forma una cintura di razionalizzazioni volta a proteggere il Vero Sé. La costruzione del Falso Sé su una base di compiacenza è opera della difesa intellettuale, o in altre parole dell’attività del lobo prefrontale fronto-orbitale sinistro, e della sua funzione logico-interpretativa.

4 – Attaccamento e mentalizzazione nella reazione al trauma

Il problema dell’impatto del trauma sulle funzioni mentali è ripreso da Fonagy e Target nella loro teoria della mentalizzazione, o cognizione sociale, o metacognizione. La funzione riflessiva, o mentalizzante, è secondo questi autori l’acquisizione da parte del bambino di un “atteggiamento intenzionale”, che consiste nell’attribuzione agli altri di credenze e desideri per spiegarne e prevederne il comportamento (Dennett, 1978). Nel contesto della “base sicura” della relazione di attaccamento, il bambino diventa capace di interpretare le azioni del caregiver sulla base di stati mentali intenzionali. Egli così acquisisce la capacità di comprendere gli stati mentali propri ed altrui. Il Sé riflessivo è il prodotto della funzione riflessiva o mentalizzante, che permette al bambino di leggere la mente delle persone che si prendono cura di lui attribuendo loro desideri, scopi, emozioni, sì che egli possa rendere prevedibile il loro comportamento e adattarvisi flessibilmente; in altre parole, la funzione riflessiva permette di derivare lo stato del Sé dalla percezione dello stato mentale dell’altro, e in ultimo di “trovare se stesso nella mente dell’altro”, essendo questa una “mente intenzionale” (Fonagy & Target, 1997).

Lo sviluppo della mentalizzazione richiede una relazione di attaccamento sicura, e Fonagy & Target (2008) ipotizzano che questa caratteristica abbia costituito per gli individui e i gruppi che la possedevano un vantaggio evolutivo in termini di comprensione e previsione del comportamento altrui. Tuttavia attaccamento e mentalizzazione procedono insieme fino a un certo punto. Il trauma, nei termini di Panksepp (1998), attiva il sistema dell’attaccamento, legato agli oppiodi endogeni, e; inibisce i comportamenti esplorativi (il sistema operativo-emozionale della ricerca, dopaminergico). Il conflitto tra i sistemi motivazionali della paura e della rabbia (ipertono catecolaminergico) concorre inibire la mentalizzazione. Pertanto relazioni di attaccamento insicure, evitanti, disorganizzate, e tutto l’insieme dello sviluppo traumatico determinano una vulnerabilità a lungo termine che compromette la funzione mentalizzante, e in ultima analisi la capacità di comprendere le emozioni proprie ed altrui e quindi il legame sociale e la consapevolezza autoriflessiva. Si stabilisce un circolo vizioso per cui il trauma spinge il bambino a ricercare la vicinanza della figura di attaccamento per sentirsi sicuro, ma questo alimenta la dipendenza dalla figura maltrattante. Proprio in funzione del fatto che il deficit di mentalizzazione compromette lo stabilirsi di confini definiti tra il Sé e l’oggetto, il caregiver non responsivo e traumatizzante verrà introiettato come “Sé alieno”, costituendo un oggetto interno persecutorio.

4.1 – Fattori terapeutici nella cura dei pazienti traumatici

Nella terapia con pazienti che hanno subito un trauma evolutivo è inutile focalizzarsi sulla ricostruzione di ipotetici eventi autobiografici. E’ piuttosto il tentativo di rielaborare le esperienze traumatiche da altre prospettive che ha un effetto terapeutico. Kihlstrom (2006) sostiene che affinché l’esperienza soggettiva non elaborata diventi simbolizzata nella consapevolezza conscia, deve essere creato un collegamento tra la rappresentazione mentale dell’evento e una rappresentazione mentale del Sé come agente o come colui che fa esperienza. Le rappresentazioni episodiche dell’oggetto della senso-percezione e del Sé risiedono e sono collegate nella memoria a breve termine. Le ragioni per cui si può dubitare della possibilità della rappresentazione immediata a livello cosciente degli stati della mente sono le stesse per cui è piuttosto improbabile la trasformazione e il recupero dei ricordi rimossi ad opera della coscienza, semplicemente perché la coscienza e l’inconscio si servono di due sistemi di trascrizione diversa dei ricordi. Il punto è stato efficacemente messo a fuoco da Fonagy (1999b). Il paziente mette in atto nella situazione analitica i modelli inconsci di relazione tra il Sé e l’oggetto. Questi modelli sono immagazzinati nella memoria implicita, procedurale, ed indirizzano coattivamente il comportamento del paziente ad di là del suo controllo e della sua consapevolezza. Essi sono procedure che organizzano il comportamento interpersonale ma non sono accessibili alla coscienza. L’analisi allora funziona in quanto “esperienza emozionale correttiva” (Alexander, 1946), che permette l’emergere di nuovi, e più funzionali, schemi di comportamento nella confortevole situazione di sicurezza e tollerante accettazione fornita dall’analista; rispetto ai quali il recupero dei ricordi dimenticati è più un epifenomeno, un effetto collaterale del fatto che il paziente si esperisce diversamente rispetto al suo coattivo passato perché si sente esperito e accettato in maniera nuova dall’analista.

Fonagy (1999a) per spiegare l’effetto trasformativo della psicoterapia impiega il concetto di “metacognizione”, o capacità riflessiva, che è un’applicazione della funzione riflessiva o mentalizzante anziché alle vicissitudini della relazione di attaccamento tra infante e caregiver a quelle della relazione terapeutica che ne è una riedizione. La metacognizione si distingue dalla semplice cognizione in quanto quest’ultima è implicita e irriflessa (la troviamo anche negli animali), mentre la prima prende le distanze dall’identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli e riflettere su di essi. La metacognizione conferisce significato e valore all’esperienza, distinguendo il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il reale dall’immaginario. Il trattamento terapeutico obbliga il paziente  a concentrarsi sullo stato mentale di un altro soggetto che si propone con un atteggiamento di benevola accettazione, il terapeuta. L’interpretazione frequente e profonda dei fenomeni transferali è la chiave per la comprensione più ampia, da parte del paziente, dei suoi aspetti esperienziali e comportamentali. Il circuito transfert-controtransfert è il luogo privilegiato dove la potenza delle componenti proiettive inconsce della personalità si scatena. L’analista diviene il rappresentante dell’oggetto interno traumatico in rapporto con la parte del Sé traumatizzata e dissociata, e la relazione analitica va incontro alle vicende disfunzionali che il paziente soffre nella vita affettiva reale. Gli eventi traumatici dissociati cosciente si fanno largo attraverso le pieghe del comportamento, del sintomo, dell’atto mancato, dell’enactment, e possono essere recuperati solo per via indiretta, perché sono codificati in un diverso sistema di memoria, e pertanto non possono divenire coscienti. Prende il nome di enactment (agito) la messa in atto di emozioni, motivazioni, rappresentazioni di relazioni interiorizzate che avviene all’interno del circuito transfert-controtransfert, e che sono espressione della parte scissa della mente del paziente. L’agito ha a che fare con un tessuto emozionale e rappresentazionale comune, in cui conta fino a un certo punto chi è l’esecutore di esso, potendo l’analista agire una parte dissociata del paziente che questi ha collocato in lui tramite l’identificazione proiettiva (e che egli ha inconsciamente accolto). Ma l’enactment è una felix culpa in quanto serve a disvelare quanto degli stati dissociati inconsci del paziente è fatto proprio e inconsapevolmente agito dall’analista.

4.2 – Dissociabilità

Secondo Bromberg (1998/2001, 2006, 2011) l’enactment è un evento dissociativo condiviso, un processo di comunicazione inconscia che riflette quelle aree dell’esperienza di sé del paziente in cui il trauma, occorso nell’età evolutiva o nell’età adulta, ha compromesso la regolazione affettiva del paziente in un contesto relazionale e quindi lo sviluppo dell’elaborazione simbolica attraverso pensiero e linguaggio. Per questo autore la psiche è una struttura che anche all’inizio non è unitaria, ma si origina come una molteplicità di configurazioni Sé-altro, o stati del Sé, sviluppandosi come un tutto integrato solo in un secondo momento, e in seguito a eventi patologici può di nuovo frammentarsi. Perciò lo scopo della terapia è passare dalla dissociazione al conflitto, che implica la compresenza cosciente di stati della mente tra loro in antitesi. Il vissuto di unità nella molteplicità (standing in the spaces, mantenersi negli spazi) è dato dalla capacità di comprendere e contenere i differenti stati della mente all’interno di una esperienza globale di essa come di una configurazione di stati di consapevolezza mutevoli e non lineari in continua dialettica con la necessaria illusione di un senso del Sé unitario. Altri autori invece sostengono che la dissociazione patologica va considerata nettamente separata dal funzionamento mentale normale (Ogawa e coll, 1997). Forse la più saggia è una posizione intermedia, come quella di Freud:

L’Io dunque è scindibile; e in effetti si scinde nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono successivamente riunirsi. Questa non è esattamente una novità, forse è un’accentuazione insolita di cose universalmente note. D’altro canto siamo avvezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingrandendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può esistere un’articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla natura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e fenditure, sono anche i malati di mente (1933, p. 171-2).

Abstract

La dissociazione è un fenomeno trasversale in psicopatologia, tanto che alcuni hanno voluto farne una dimensione. La sua eziopatogenesi risale alla mancata sintonizzazione tra l’infante e il caregiver, e alla conseguente disregolazione affettiva. Questa mette in moto una serie di meccanismi adattativi disfunzionali, il cui esito è la compromissione della maturazione del cervello in via di sviluppo, e infine la vulnerabilità agli eventi stressanti successivi.  Il trauma interferisce con la memoria dell’evento stesso, attiva l’attaccamento al caregiver e inibisce la mentalizzazione. I  ricordi dissociati codificati a parte riemergono nella situazione analitica come sintomi ed enactment.  Il rispecchiamento empatico dell’analista struttura una esperienza emozionale correttiva: essa, e non il recupero del ricordo, è il fattore terapeutico attraverso cui il trauma può essere rielaborato e reinterpretato.

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Una risposta

  1. Egr. Dottore
    lo spessore della Sua competenza è evidente da quanto scrive: raramente si trova online materiale di ottimo valore come il Suo.
    Sono incorsa in una discussione con alcuni colleghi, che spero Lei possa chiarire. è solo un dettaglio di forma. Le versioni del DSM sono sempre state indicate con numeri romani: I, II, III e IV. Con i colleghi discutevamo se nell’ultima versione, il numero arabo, è stato scelto per specificare un impianto diverso o solo per evitare l’imbarazzo di una versione X tra qualche lustro. Alcuni non sono d’accordo e ritengono che DSM-5 sia equivalente a DSM-V. Cosa ne pensa?
    Cordiali Saluti
    Ambra Abate

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