Neurofisiologia dell’Aggressività

Neuroscienze.netABSTRACT
Aggressività e violenza costituiscono purtroppo dei connotati caratteristici della nostra civiltà: dai conflitti tra stati o etnie, alle violenze omicide attuate in ambito familiare, le nostre cronache dedicano spazi sempre più ampi ad eventi il cui comune denominatore è costituito dalla minaccia e dalla sopraffazione nelle loro più diverse espressioni.
Il problema dell’aggressività, per la sua natura composita, che lo rende al contempo un campo di specializzazione obiettiva, e un’area che coinvolge la dimensione filosofica, etica e sociale, ha stimolato molti tentativi di ricerca a livello individuale, di gruppo sociale, o di specie animale. Biologi ed etologi, fisiologi e psicologi, psichiatri e sociologi, hanno affrontato il problema con metodologie diverse, che spaziano dallo studio delle basi anatomo-fisiologiche a quelle dei meccanismi biochimici, a quelle dell’osservazione condotta nei contesti più diversi, come la prigionia del topo nella gabbia, dell’uomo nei lager nazisti, degli astronauti nella capsula spaziale.
La tematica dell’aggressività è stata quindi oggetto di numerose indagini ed analisi nei più diversi ambiti disciplinari: infatti, le ricerche anatomiche e neurofisiologiche hanno riscontrato l’esistenza di un substrato organico che presiede alla gestione dei vari comportamenti aggressivi, mentre quelle neuropsichiatriche hanno osservato come la somministrazione di particolari tipologie di pscicofarmaci possa condurre ad importanti modificazioni del comportamento aggressivo. Le ricerche condotte in ambito biochimico hanno invece osservato come i comportamenti violenti siano connotati da precise modificazioni biochimiche, dimostrando l’esistenza di ordinati rapporti tra ormoni sessuali e aggressività, tra amine biogene e aggressività, e tra vari tipi di farmaci o di fattori e controllo dell’aggressività. In ambito psicologico invece, le ricerche si sono inizialmente articolate in due opposte fazioni, a cui i vari autori si avvicinano più o meno con sfumature diverse: ad una estremità troviamo il modello psicoanalitico, per cui l’aggressività è un istinto primario, e dall’altro il modello behavioristico, per cui essa è invece una risposta appresa. Le più recenti ricerche condotte in ambito neuroscientifico hanno però dimostrato che questa antitesi non ha fondamento oggettivo, e che anzi queste due istanze sono in interazione continua. Tali ricerche si sono dimostrate validamente utili sul piano pratico, sia a livello terapeutico che sociale, poichè sono in grado di contribuire sia al controllo della violenza e dei conflitti sociali, che al trattamento di varie patologie psichiche. Tuttavia, tali ricerche presentano vari limiti ed ostacoli, principalmente di ordine etico e deontologico.

INTRODUZIONE
Innanzitutto, alcune difficoltà iniziali derivano già dalla natura eterogenea del termine; a livello semantico, infatti, “tale termine include una giungla di idee ed un’ampia gamma di fenomeni ed attività” (Ramirez, 2000), che a loro volta riflettono le idee dei vari ricercatori spesso fra loro contrastanti.
La parola aggressività può essere considerata una “parola valigia”(Storr,1968), visto che amalgama significati molto diversi fra loro: un’emozione aggressiva giustificata o ingiustificata, una legittima competizione in ambito professionale, un atteggiamento mentale, un conflitto internazionale, e così via. Questa differenza fra comportamento e atteggiamento risulta invece ben specificata nella lingua inglese, dove esistono, rispettivamente per il primo e il secondo significato, le due espressioni di aggression e aggressiveness. Il termine aggressività viene quindi usato in modo ambiguo ed equivoco, creando una notevole confusione, poiché può essere applicato, indiscriminatamente, sia all’uomo che difende la propria vita in caso di attacco, sia all’omicida che infierisce mortalmente sulla vittima; l’etimologia stessa della parola testimonia quindi, in modo efficace, la complessità dei significati che essa può accorpare: dal latino ad, che significa verso, contro, allo scopo di, e gradior, cioè vado, procedo, avanzo.
In secondo luogo, si riscontrano notevoli impedimenti sul piano sperimentale: infatti, la maggior parte degli approcci sperimentali di studio riguardo la natura biologica dell’aggressività, esige particolari manipolazioni (del livello di ormoni e/o di neurotrasmettitori) che nell’uomo non sono assolutamente possibili. Questo settore d’indagine neuroscientifica risulta quindi caratterizzato dalla pressoché totale impossibilità di sufficienti correlazioni tra le varie definizioni operative, dall’assoluta artificialità dei setting sperimentali, e dalla relativa impossibilità di eseguire studi longitudinali sui comportamenti aggressivi in un contesto naturale.
A causa dei diversi impedimenti che gli studi sul comportamento aggressivo presentano nella nostra specie, essi vengono solitamente eseguiti su vari modelli animali, i quali presentano numerosi vantaggi. Infatti, gli animali solitamente esibiscono comportamenti stereotipati, parcellizzabili in frazioni ben precise, ognuna delle quali è dotata di caratteristiche stabili e quindi facilmente riconoscibili ed identificabili. Emergono quindi variabili comportamentali ben precise, analizzabili e manipolabili sperimentalmente, sia a livello quantitativo che qualitativo.
D’altro canto, proprio per l’estrema complessità del tema trattato, un solo modello animale non può essere di certo rappresentativo dell’intera gamma di comportamenti aggressivi umani, rendendo quindi necessaria un’integrazione fra i vari risultati ottenuti sui diversi modelli animali. La specie umana infatti è unica per la sua abilità di utilizzare la comunicazione verbale nella regolazione del comportamento sociale, incluso quello aggressivo, anche se i gesti, le posture e gli atteggiamenti messi in atto nella nostra specie possono essere comuni a quelli di altri mammiferi.
Ma facciamo qualche passo indietro, ed esaminiamo qualcuno dei numerosi contributi che gradualmente hanno condotto alle nostre attuali conoscenze sui meccanismi che regolano l’aggressività. Una prima distinzione è stata compiuta tra due diverse categorie di comportamento aggressivo, ovvero il comportamento di attacco e il comportamento di difesa-offesa.
Uno dei primi studiosi ad interessarsi a questa tematica fu Charles Darwin, che nel 1872 pubblicò una celeberrima opera, dal titolo “The expression of the emotion in man and animals”. In questa sede egli, fra l’altro, descrisse dettagliatamente la risposta comportamentale del gatto in presenza del cane, che risultava essere costituita da curvatura del dorso, abbassamento del capo, dilatazione delle pupille, piloerezione, aumento della frequenza cardiaca e respiratoria, brontolio sordo ed il soffio finale, che rappresenta il culmine di questa reazione comportamentale.
Diversi anni dopo, tra il a 1944 e il 1969, Hess riprodusse la reazione di “difesa-offesa” nell’animale non narcotizzato e libero di muoversi, stimolando elettricamente specifiche aree ipotalamiche. Era la prova che l’attivazione di alcune zone del sistema nervoso centrale poteva evocare risposte comportamentali complesse, integrate ed orientate ad uno scopo (la preservazione dell’integrità animale, la predazione, la fuga) anche in assenza di uno stimolo ambientale, fenomeno che in passato era stato identificato col termine di “falsa rabbia”.
Oggi sappiamo che la stimolazione dell’ipotalamo laterale induce nel gatto, che spontaneamente non aggredisce il ratto, un caratteristico attacco di tipo predatorio, costituito da comportamenti quali esplorazione dell’ambiente, puntamento e silenzioso avvicinamento della preda, attacco repentino con morso alla nuca del ratto e uccisione di quest’ultimo. La stimolazione del nucleo ventromediale dell’ipotalamo dà luogo invece alla reazione di difesa-offesa descritta da Darwin e indotta da Hess e, infine, la stimolazione dei punti situati più rostralmente e lateralmente evoca reazioni di fuga.

NEUROFISIOLOGIA DELL’AGGRESSIVITA’
Un notevole progresso, nella conoscenza dei meccanismi nervosi alla base del comportamento aggressivo, si deve ad alcune ormai classiche ricerche, condotte tramite il metodo delle lesioni chirurgiche a carico soprattutto dell’ipotalamo. Tali lesioni inducono nel gatto, nel cane e nella scimmia, una disinibizione dell’aggressività ed un conseguente abbassamento della soglia d’innesco dei comportamenti violenti, i quali vengono scatenati anche da stimoli di lieve intensità. Presumibilmente, le aree asportate contengono circuiti nervosi che normalmente inibiscono l’aggressività. Gli esperimenti di Allan Siegal e Thomas Gregg (1998, 1999, 2001) dimostrano che i circuiti celebrali implicati nel controllo dei meccanismi di aggressività/difesa sono situati nell’ipotalamo mediale e laterale, nell’amigdala e nel grigio periacqueduttale del mesencefalo.
Tra i mammiferi, quindi, i modelli animali di gran lunga più usati sono il gatto ed il topo i quali, grazie alla somiglianza che presentano in alcune strutture neurofisiologiche rispetto a quelle umane, rendono possibili confronti agevoli ed informativi con la nostra specie. In questi due animali, tuttavia, il comportamento aggressivo assolve funzioni ecologiche e sociali diverse, poichè essi occupano “nicchie ecologiche” diverse: il gatto è solitario ed esclusivamente carnivoro, mentre il ratto vive in colonie ed è onnivoro.
In ragione di ciò, il gatto mette in atto il comportamento aggressivo d’attacco principalmente per ragioni di ordine fisiologico, ma non per difendere una determinata posizione sociale, dal momento che vive isolato e non all’interno di un sistema gerarchicamente organizzato. Inoltre, egli non è chiamato ad aggredire un estraneo che invade il suo territorio, poiché fondamentalmente non possiede alcun territorio. Viceversa il ratto, la cui alimentazione è molto varia, non ha bisogno di cacciare più volte al giorno per sopravvivere, ma è chiamato costantemente a difendere il suo territorio e la sua posizione di dominanza nell’ambito della colonia entro la quale vive. Conseguentemente, nel ratto si registra una più alta incidenza dei combattimenti fra conspecifici, mentre il gatto attacca più spesso altri animali, appartenenti a gradini più bassi della scala filogenetica (prevalentemente topi ed uccelli); le lotte fra conspecifici nei felini maschi sono soprattutto legate alla sfera sessuale ed hanno lo scopo di assicurarsi l’accesso all’accoppiamento.
Le femmine di ambo le specie, invece, esprimono la loro aggressività soprattutto per proteggere la progenie da eventuali pericoli esterni.
Tuttavia, sia nel gatto che nel ratto è possibile distinguere il comportamento aggressivo in due fondamentali categorie: offensivo (detto anche competitivo nel caso del ratto) e difensivo, anche se tale discriminazione si basa su criteri diversi.
Ci sono però ulteriori differenze fra le due specie, sia sul piano nervoso che comportamentale; infatti, nel gatto è stato possibile identificare e distinguere i siti cerebrali che sovrintendono alla gestione dei due tipi di comportamento, situati prevalentemente a livello dell’ipotalamo e della sostanza grigia periacqueduttale. Per quanto concerne il ratto, invece, tuttora si pensa che il substrato cerebrale, la cui sollecitazione conduce all’espressione dei comportamenti aggressivi, sia costituito da un unico circuito nervoso polivalente, sotteso sia all’attacco che alla difesa, localizzato in una precisa struttura dell’ipotalamo, definita area d’attacco ipotalamica (HAA). La differenza fra le due diverse tipologie di comportamenti sarebbe dovuta soltanto alle circostanze ambientali (Siegel e Gregg,”Neurofarmacologia dell’aggressività evocata dalla stimolazione cerebrale”,2000).
Per quanto riguarda il gatto, Siegel e Gregg affermano che esso costituisce il modello ottimale per questo tipo di indagini, ed è sul modello felino, infatti, che svolgono i loro studi. Tali studi hanno dimostrato l’importanza dell’ipotalamo laterale perifornicale nell’espressione ed integrazione del comportamento di attacco predatorio, e dell’ ipotalamo mediale e della porzione dorsale della PAG nell’estrinsecazione del comportamento aggressivo difensivo. Siegel e Gregg distinguono inoltre due diversi tipi di siti di attacco: quelli non direttamente legati all’innesco del comportamento offensivo, principalmente connessi con l’atto del mordere e dislocati lungo l’estensione rostrocaudale dell’ipotalamo laterale, e quelli implicati nella genesi del comportamento di attacco predatorio, situati a livello dell’ipotalamo perifornicale laterale. Tali siti danno origine a due diversi patterns o gruppi di proiezioni: il primo comprende delle fibre che, dall’ipotalamo laterale, si dirigono verso il nucleo settale, il talamo mediale, la regione perifornicale del tronco encefalico e, limitatamente, anche a quella segmentale-ventrale. Il secondo riguarda invece proiezioni molto più estese che partono dall’ipotalamo perifornicale e si dirigono verso l’area settale, la stria terminale, e caudalmente verso il nucleo del locus caeruleus e il nucleo motorio del nervo trigemino.
I siti difensivi si trovano invece entro le regioni rostro-caudali dell’ipotalamo mediale, precisamente entro l’area mediale preottica, ma anche entro la porzione dorsale della sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica (Fuchs, 1985, Shaikh, 1987, Wasman e Flynn, 1962); quando vengono attivati, eccitano le cellule nervose del tronco encefalico e del midollo spinale che avviano le reazioni fisiologiche tipiche della difesa aggressiva.
Altri neuroni in grado di modulare questa forma di comportamento violento si trovano nell’amigdala, nel bed nucleus della stria terminale e nell’ipotalamo laterale; essi contraggono delle sinapsi inibitorie con i neuroni difensivi della sostanza grigia periacqueduttale e dell’ipotalamo mediale, in modo da modulare l’intensità delle loro risposte.
Altre strutture cerebrali hanno invece un ruolo modulatorio nel comportamento aggressivo, e sono: l’ippocampo, il talamo, il giro del cingolo, il bulbo olfattivo, la corteccia prefrontale e l’amigdala. Fra esse quella più importante nella modulazione del comportamento aggressivo è senza dubbio l’amigdala, deputata alla valutazione del pericolo e all’organizzazione del comportamento conseguente nella sua porzione mediale, e ai fenomeni connessi all’apprendimento della paura a livello dei nuclei centrale e basolaterale. Un interessante studio sperimentale, che mette bene in evidenza le differenze funzionali esistenti fra i vari siti dell’amigdala, è stato condotto nel 1998 da Micheal Oakes e Gary Coover presso l’università dell’Illinois. Essi elaborano uno studio sperimentale dotato di un disegno abbastanza complesso, che si dipana attraverso due fasi.
-I soggetti sperimentali, 59 ratti della linea Long-Evants, vengono divisi in tre gruppi, caratterizzati da tre diverse lesioni: a 15 ratti viene praticata una lesione dell’amigdala centrale di circa o.8mm di diametro (rACe), 11 subiscono una lesione delle stesse dimensioni a livello dell’amigdala basolaterale (r ABL), mentre a 16 ratti viene lesa per intero l’amigdala mediale (rAMe).
I restanti ratti sono lasciati intatti e costituiscono il gruppo di controllo.
Tutti i ratti sono collocati in gabbie individuali, nelle quali il cibo è a disposizione continua, mentre per quanto riguarda il bere, nella prima fase dell’esperimento i ratti vengono sottoposti ad un programma di “graduale restringimento dell’acqua da bere”, che si svolge in cinque giorni. L’animale la attinge da una cannella che sporge per 4 cm all’interno della gabbia, la quale è connessa ad un dispositivo che libera corrente elettrica sotto i piedi dell’animale. Se lui prova a bere al di là del tempo consentito viene liberata una scossa, che aumenta gradualmente nell’intensità con l’ammontare degli errori.
Gli autori notano allora che i ratti rACe ed ABL ricevono molte più scosse rispetto agli altri due gruppi, come se non riuscissero a capire che il bere al di fuori del tempo consentito costituisse per loro un pericolo: infatti, le lesioni dei nuclei centrale e basolaterale ostacolano l’apprendimento del pericolo. Nella seconda fase dell’esperimento tutti i ratti vengono sottoposti ad un classico “test dell’intruder”, per quantificare i loro comportamenti aggressivi, sia offensivi che difensivi; gli animali vengono ruotati in modo da utilizzarli sia come residenti che come intrusi. Tutti i ratti si mostrano complessivamente poco aggressivi; l’unica differenza che risulta statisticamente significativa riguarda il comportamento di difesa sul lato dei ratti AMe, esibito in misura maggiore rispetto agli altri gruppi di ratti. Probabilmente, sottolineano gli autori, l’animale usa questo comportamento di difesa per tenere lontano l’avversario che avanza lentamente verso di lui, ed il fatto che vi ricorra più spesso significa che esprime maggiormente la paura di essere aggredito. Sembra quindi che la lesione dell’amigdala mediale comprometta la valutazione del pericolo oggettivo. Gli autori concludono confermando l’esistenza delle suddette differenze funzionali fra i nuclei dell’amigdala.
L’amigdala riceve input dall’esterno attraverso due fonti: riceve una rapida, ma grezza rappresentazione dal talamo sensoriale, ed una rappresentazione più tardiva, ma più completa, dalla corteccia prefrontale, soprattutto nelle sue porzioni mediale ed orbitale. Sebbene gli input dalle vie talamica e corticale arrivino in tempi diversi, raggiungono gli stessi neuroni; se essi sono stati attivati dall’amigdala, non possono essere attivati dalla corteccia prefrontale e viceversa: queste due aree sono in rapporto di antagonismo funzionale reciproco. Fintanto che l’amigdala mantiene un elevato livello di attivazione nervosa, non può entrare in azione la corteccia prefrontale, adibita alla scelta dell’opzione migliore in situazioni emotivamente difficoltose: il soggetto può così lasciarsi sopraffare dalla paura finendo col compiere degli “errori emotivi”.
Un interessante studio sperimentale che conferma il ruolo della corteccia prefrontale, ed il rapporto di “antagonismo funzionale” che essa ha con l’amigdala, è stato condotto nel 2003 all’ “Istituto nazionale per la cura dell’alcolismo e dell’abuso di alcol” degli U.S.A, su alcuni soggetti umani, definiti “perpetratori di violenza domestica”. Gli autori postulano che gli scoppi d’ira di questi soggetti si originano dal fallimento della corteccia prefrontale nel ridimensionare l’approssimativa e grezza elaborazione dell’amigdala degli stimoli minacciosi.
I soggetti che partecipano a questo studio sperimentale sono divisi in tre gruppi: il primo gruppo è costituito da otto soggetti violenti verso la consorte che rispondono ai criteri del DSM IV per l’alcolismo (DV-ALC), il secondo è composto da 11 soggetti alcolisti non violenti, mentre l’ ultimo gruppo consiste di 10 soggetti di controllo che non avevano mai manifestato problemi connessi alla violenza e all’alcolismo.
La tecnica utilizzata in questo esperimento è la tomografia ad emissione di postrioni (PET), allo scopo di quantificare il metabolismo di glucosio a livello delle aree che mediano le risposte condizionate dalla paura e connesse all’attacco.
Tutti i partecipanti vengono poi sottoposti ad una valutazione del livello di ansia, di depressione, e di aggressività tramite apposite scale di misurazione; di tutte e tre le variabili viene calcolata la media che costituisce il valore rappresentativo del gruppo.
Anche per i risultati ottenuti tramite le indagini con la PET viene calcolata la media di gruppo; in seguito, i dati relativi all’attività nervosa delle aree cerebrali d’interesse sono confrontati con quelli relativi alle scale di misurazione del livello d’ansia, di depressione e di aggressività.
Contrariamente alle ipotesi postulate dagli autori, i soggetti DV-ALC non manifestano un livello di glucosio significativamente più basso nella corteccia prefrontale, ma un suo diminuito utilizzo a livello dell’ipotalamo e delle fibre che connettono l’amigdala alla stessa corteccia. La ridotta attività di queste fibre compromette la capacità della corteccia prefrontale di modulare la prima e grezza valutazione dello stimolo minaccioso effettuata dall’amigdala; la mancanza di input corticali all’amigdala è alla base dell’ipersensibilità dei soggetti del primo gruppo agli stimoli pericolosi provenienti dall’ambiente, e alla conseguente esibizione di comportamenti di difesa spropositati. Alla base dei comportamenti iperaggressivi sia di attacco che di difesa, dovuti ad una sopravvalutazione del pericolo esterno, si troverebbe una ridotta attivazione dei siti ipotalamici, ma soprattutto delle efferenze della corteccia prefrontale all’amigdala.
Risultati simili sono stati ottenuti anche in un altro studio, condotto su un gruppo di pazienti femmine borderline nel 2003 da un gruppo di medici del “Dipartimento di psichiatria” di Pittsburgh, U.S.A. Essi sottolineano che, nei pazienti psicotici e nei criminali violenti, il comportamento aggressivo è spesso associato ad alterazioni dell’afflusso di sangue al cervello e del metabolismo del glucosio (Raine et al., 1997, Soderstrom et al., 2000), a livello delle aree prefrontali, frontali e temporali; inoltre, la quantità di sangue e di glucosio che caratterizza l’attività cerebrale è inversamente proporzionale alla gravità della patologia.
Un ampio insieme di studi sperimentali condotti su animali, e di osservazioni di laboratorio sull’uomo, indicano la corteccia prefrontale, soprattutto nella porzione orbitale, come il principale sito esecutivo nella regolazione dei circuiti neuronali che mediano l’impulsività, il comportamento aggressivo e il controllo degli istinti violenti. I test neuropsicologici nei soggetti impulsivi, con disturbo di personalità borderline (BPD) o antisociale, mostrano deficit nelle funzioni esecutive del lobo frontale, specialmente nei processi cognitivi che coinvolgono il problem solving, la pianificazione comportamentale, l’attenzione selettiva e il controllo inibitorio dei comportamenti. L’indagine in questione riguarda i soggetti con BPD, in quanto questa patologia comporta, fra gli altri sintomi, violenti scoppi di ira e di violenza, diretti contro gli altri e contro sé stessi; in quest’ultimo caso, essi possono sfociare anche nel suicidio. Le pazienti appartengono al “Dipartimento di psichiatria” di Pittsburgh, U.S.A., dove sono state tutte diagnosticate come borderline in base ai criteri del DSM IV; i soggetti di controllo sono ugualmente donne ma che non hanno mai manifestato alcun disturbo psichico. Dei soggetti sperimentali vengono misurati i sintomi depressivi, i comportamenti aggressivi, ed i tentativi di suicidio; viene poi quantificato il livello di metabolismo di glucosio della corteccia prefrontale tramite la tecnica della PET.
In seguito, i dati relativi alla misurazione dei comportamenti aggressivi, impulsivi e suicidari vengono messi in correlazione, in ambedue i gruppi, con i risultati della PET; infine vengono confrontati i risultati finali relativi ai due gruppi.
Le pazienti BPD dimostrano un livello di comportamenti aggressivi, auto ed etero distruttivi, molto più alto rispetto alle donne di controllo, ed un metabolismo prefrontale significativamente più basso; questi due dati sono inversamente correlati, ovvero all’aumentare dell’uno l’altro decresce. La corteccia orbitofrontale media molte funzioni critiche delle condotte di regolazione sociale, come il controllo dei comportamenti legati a ricompense e punizioni, il riconoscimento delle emozioni altrui tramite le espressioni facciali, e la violazione dei segnali sociali di “quieto vivere” (Hornak et al., 1996, Blair e Cipollotti, 2000). Altri studi funzionali di neuroimmagine, che utilizzano il paradigma della rabbia indotta, dimostrano che l’attivazione della corteccia orbitofrontale ha un ruolo inibitorio nella regolazione delle emozioni. Lesioni a livello della corteccia prefrontale sono associate ad con una riduzione della capacità inibitorie di contenere, controllare e regolamentare l’espressione delle emozioni, che si ripercuote in un’incapacità di imbrigliare l’istinto violento. Ad essa si aggiunge una marcata disinibizione comportamentale, comportamenti socialmente inappropriati, un incremento di impulsività, irritabilità, labilità emotiva, e cambiamenti devastanti nella personalità, che sono alla base del disturbo; le altre funzioni cognitive invece sono lasciate intatte.

CONCLUSIONI
Gli studi sinteticamente passati in rassegna indicano chiaramente che le aree effettrici dei vari comportamenti aggressivi, la cui mera stimolazione evoca il comportamento corrispondente, sono localizzate a livello dell’ipotalamo e del grigio periacqueduttale. Tuttavia, in un contesto naturale di incontro-scontro fra due elementi della stessa specie, i comportamenti che ne risultano non sono dovuti solo alla mera attivazione delle aree effettrici, ma anche, alla valutazione del pericolo effettivo ed al calcolo dei costi e benefici, oppure alla semplice paura ed alla conseguente necessità di autotutelarsi. A determinare i comportamenti violenti contribuisce quindi in ultima analisi la disputa fra gli input amigdaloidei e quelli della corteccia prefrontale.

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