Apprendimento implicito e trauma

Le evidenze delle neuroscienze, l’esperienza della psicoanalisi, le implicazioni sulle teorie cliniche

Keywords: psicoanalisi e psicobiologia, neuropsicoanalisi, memoria, memoria implicita, memoria esplicita, memoria dichiarativa, memoria procedurale, memoria emotiva, processi impliciti, apprendimento implicito, stress e memoria, inconscio, inconscio non rimosso, coscienza, consapevolezza, personalità, carattere, cognitivo-affettivo, abuso, maltrattamento, trauma.

Abstract

Alla luce delle osservazioni effettuate in ambito psicoanalitico e delle recenti ricerche effettuate nel campo della psicobiologia, della psicologia sperimentale, dell’infant research, si deduce come la memoria sia un fenomeno multicomponenziale, dinamico, non lineare, la cui trattazione necessita di una pluralità di approcci e metodi di studio differenti per riuscire a comprenderne la complessa natura. Muovendosi in quest’ottica di integrazione dei diversi approcci allo studio dei fenomeni mentali, l’interesse di molti ricercatori si è focalizzato sui punti di contatto esistenti tra la moderna concezione di memoria implicita (di derivazione cognitiva) e il concetto di inconscio (di chiara origine psicoanalitica): questi concetti sarebbero accomunati dalla capacità specifica di dotare di continuità e di significato la realtà, di influenzare il comportamento guidando e motivando le azioni dell’individuo senza che ciò comporti il ricorso alla consapevolezza/coscienza.

Di estremo interesse risulta in questo senso l’osservazione che le esperienze, soprattutto quelle di natura relazionale, avute in epoche precoci della vita, sono di capitale importanza per lo sviluppo neurale e cognitivo-affettivo della persona: tali esperienze contribuiscono, assieme ai fattori maturazionali e individuali, a determinare quelle che saranno le future attitudini sociali e relazionali della persona, le sue avversioni o propensioni, le capacità empatiche, quindi la sua personalità, nonché la sua predisposizione a sviluppare qualche forma di psicopatologia. Questo lavoro di revisione di dati che emergono dalla letteratura internazionale si inserisce nel dibattito attuale circa i processi impliciti/inconsci di apprendimento con un focus particolare sugli effetti che determinano sullo sviluppo neurale e psicologico i fattori stressanti e traumatici occorsi nell’infanzia. L’articolo si conclude con le interessanti intuizioni a cui pervengono alcuni autori contemporanei circa i risvolti applicativi in ambito clinico dei modelli di integrazione che verranno esposti.

Introduzione

La comunità scientifica che si occupa della memoria umana condivide l’idea di una distinzione tra “memoria dichiarativa”e“memoria procedurale” (M.J.Cohen e L.Squire,1980; 1984) e quella tra “memoria esplicita”e“memoria implicita” (D.Schacter e P.Graf, 1986) che dimostra come una parte delle nostre esperienze lascia una traccia e provoca cambiamenti neurali più o meno permanenti anche se ciò si verifica al di fuori della nostra consapevolezza. Questi cambiamenti possono influenzare le nostre reazioni all’ambiente, il nostro comportamento, nonché l’attività di pensiero (Claparéde, 1911; Cohen, 1980; Tulving et al., 1982; Parkin, 1982; Weiskrantz, 1986; Damasio et al., 1989; Tranel e Damasio, 1993; Schacter, 1996). Se si riflette sul fatto che fino al momento della comparsa del linguaggio nella storia ontogenetica dell’uomo gran parte dell’esperienza è di tipo implicito, il ruolo ricoperto da questo insieme di ricordi (archiviati in una forma implicita di memoria che resterà inconscia per il resto della vita), corrispondente ad una forma di “sapere” pre-verbale e pre-simbolico (che riguarda le prime impressioni sensoriali, l’attività motoria, le risposte emotive all’ambiente, la qualità delle prime relazioni con le figure di attaccamento,ecc..) potrebbe essere molto importante per la strutturazione psichica di un individuo. Le esperienze svolgono un ruolo importante non solo in quanto “informazioni” ma anche perché determinano i “modi” con cui la mente sviluppa la capacità di elaborare le informazioni. Il richiamo alla mente delle memorie implicite non si accompagna alla sensazione di stare ricordando qualcosa, ma a quella di trovarsi “immersi in una particolare condizione della realtà presente” (Siegel, 1999) che, potremmo dire, possiede una precisa connotazione emotiva (a valenza positiva o negativa a seconda del tipo di esperienza vissuta soggettivamente). A generare queste sensazioni sono gli “schemi mentali” creati sulla base delle nostre precedenti esperienze. Vediamo dunque aprirsi di fronte a noi una interessante prospettiva che ben si aggancia alla teoria psicoanalitica: questo complesso sistema pratico-teorico, a partire da Freud fino ai contemporanei autori della psicoanalisi relazionale, vede proprio nell’infanzia il periodo critico in cui, sulla base delle esperienze anche molto precoci, si formerebbe la personalità di base di un individuo (“carattere” secondo la terminologia originaria della psicoanalisi), e dove verrebbe eventualmente ad “incubarsi” la propensione a sviluppare modalità patologiche del comportamento adulto. Oggi sappiamo che un insieme di fattori concorrono a determinare gli aspetti caratterizzanti di un individuo, come i fattori individuali, quelli maturazionali, varie pre-disposizioni genetiche ereditate, ma possiamo porci alcune domande che riguardano la componente esperenziale: come si sviluppa ed evolve il sistema della memoria nel corso della vita? In quali fasi della vita cominciano ad essere attivi i sistemi di memoria e quale tipo di ricordi possono esservi immagazzinati? Quale effetto hanno sul modo di essere e di agire quotidiano le memorie implicite? Che effetto hanno sullo sviluppo neurale e mentale le esperienze negative precoci come abusi e maltrattamenti? Tentiamo ora di dare risposta a questi quesiti procedendo per gradi.

La memoria: studi di psicologia sperimentale nel neonato e in età evolutiva

Gli studi sulle capacità di apprendimento del feto hanno investigato la possibilità che i neonati fossero in grado di rispondere a stimoli sensoriali di cui essi avevano fatto esperienza nel periodo prenatale. De Casper & Fifer (1986) hanno condotto un interessante esperimento a riguardo divenuto ormai celebre: durante il periodo di gravidanza alcune madri lessero la storia “The Cat in the Hat” (il gatto nel cappello) due volte al giorno per 6 settimane prima della nascita. Dopo la nascita, quando fu data loro la possibilità di allattare i neonati facendogli ascoltare registrazioni della storia “nota” e registrazioni di storie differenti risultò che i piccoli preferivano ascoltare la prima mostrando comportamento di suzione più accentuato (per intensità e frequenza) durante l’ascolto. Da un altro studio è emerso che la capacità di riconoscere la voce della mamma è acquisita prima della nascita: se infatti viene data ai neonati la possibilità di prestare attenzione alla voce della mamma filtrata in modo da simulare lo spettro di frequenze disponibili nell’ambiente uterino e alla voce della mamma non filtrata, essi preferiscono la prima (Fifer e Moon, 1994). I neonati preferiscono anche ascoltare la loro lingua madre rispetto ad una lingua straniera (Aslin e Hunt, 2001). Queste precoci preferenze sono testimonianza del fatto che il piccolo ha ritenuto in qualche modo una traccia mnesica dell’informazione inerente la voce materna e delle caratteristiche acustiche e ritmiche dei suoni linguistici. Le strutture neurali che mediano i meccanismi della memoria implicita sono dunque già presenti alla nascita e nel corso del suo primo anno di vita il bambino é già in grado di registrare (e forse di richiamare) ricordi a livello implicito (Siegel, 1999). Queste evidenze testimoniano come il neonato regoli il comportamento osservato (in questo caso la suzione) in base alle sensazioni soggettive promosse da eventi di cui egli ha avuto una precedente esperienza. Possiamo quindi accettare l’ipotesi secondo cui le esperienze sensoriali del feto partecipano alla formazione di una “memoria di base” che permette al bambino di vivere con continuità psichica il passaggio dall’ambiente interno a quello esterno (Mancia, 2007). Spingendoci oltre potremmo ipotizzare che nel nuovo mondo ignoto del neonato appena nato, un mondo così diverso da quello conosciuto nel periodo di gestazione, la voce della madre rappresenta forse l’unico elemento di continuità con l’esperienza prenatale. Altri studi ancora dimostrano che i neonati riescono a ritenere informazioni mostrando preferenze che guidano le loro azioni e il loro comportamento. Sin dalle prime fasi della loro esistenza i bambini sono in grado di girare la testa in risposta ad uno stimolo appreso (comportamento non riflesso), di percepire immagini e anche di correlarle ad altre sensazioni di natura tattile ed uditiva (DeCasper e Fifer, 1980). Uno studio di Rovee-Collier (1993) dimostra che neonati tra i due e sei mesi sono in grado di ritenere informazioni di particolari episodi. Nell’esperimento da loro predisposto venivano attaccati dei giocattoli alle gambe dei neonati; quando questi scalciavano i giocattoli emettevano dei suoni che li facevano divertire molto. Riportati in laboratorio due giorni dopo, i bambini muovevano spontaneamente le gambe tirando un gran numero di calci ma ciò non avveniva se messi davanti ad un giocattolo con caratteristiche diverse da quello che avevano attaccato alla gamba nella fase di apprendimento dell’esperimento e quelli di sei mesi addirittura non scalciavano se la fodera che ricopriva il giocattolo veniva cambiata, mentre riprendevano a scalciare quando veniva rimessa la fodera originaria (Roove-Collier e Gerhardstein, 1997). Per dimostrare che bambini al di sotto dei quattro anni possono ricordare eventi specifici, gli psicologi hanno utilizzato due paradigmi sperimentali molto conosciuti: l’oggetto scomparso e l’imitazione elicitata, aggirando così il problema che deriverebbe dall’uso del linguaggio per formulare richieste a soggetti in cui questa funzione è ancora immatura. Ricorrendo al primo paradigma, gli studiosi sono riusciti a dimostrare che bambini di ventuno mesi riescono a portare a termine un compito di “non-accoppiamento ritardato con il campione”, in cui il bambino deve dimostrare di riconoscere e distinguere due oggetti diversi per ottenere una ricompensa (Diamond, 1990). Il secondo paradigma coinvolge l’uso di un prompt (suggerimento) da parte di un modello che svolge un’azione che il bambino deve imitare successivamente. È risultato che bambini di undici mesi possono imitare in maniera accurata eventi familiari come ad esempio mettere a letto un orsacchiotto, ed eventi nuovi come ad esempio premere un pulsante per produrre un suono. Effetti legati all’età sono stati rilevati in questo esperimento: a nove mesi i bambini ritengono l’informazione per 24 ore, a 14 mesi ricordano la sequenza appresa per una settimana, dai 20 mesi in poi il richiamo è evidente per intervalli più lunghi fino a 6 settimane (Bauer, 1997). Nei bambini più grandi si cominciano a notare differenze tra compiti che richiedono la partecipazione della memoria implicita e compiti che invece coinvolgono la componente esplicita della memoria. In un esperimento condotto su bambini di 3, 5, e 7 anni, e su adulti venivano mostrate sequenze di figure (Parkin e Streete, 1988). Lo stimolo (ad esempio l’immagine di un ombrello) veniva prima mostrato in forma degradata, rarefatta, e poco definita, subito seguito da versioni più dettagliate della stessa immagine, fino a quando era stabilita l’identificazione dell’oggetto. Dopo un intervallo di tempo, le sequenze di figure venivano ripresentate ai soggetti per stabilire se servisse un minor quantitativo di informazione per l’identificazione (per stabilire cioè se fosse avvenuto o meno un apprendimento implicito a livello percettivo). I bambini fino a tre anni mostravano un apprendimento in questo senso anche se nel caso di bambini di tre anni la capacità di ricordare esplicitamente di aver visto o meno le figure (memoria esplicita-dichiarativa) era molto povera.

Traumi e stress in età evolutiva: modelli di integrazione tra psicoanalisi e neuroscienze

I neuroscienziati hanno indagato gli effetti a breve e lungo termine che esperienze negative e traumatiche, come separazione precoce dalla madre, maltrattamenti ripetuti, stress, determinano sullo sviluppo del cervello e come questo si rifletta sullo sviluppo globale della persona. Dal punto di vista anatomo-funzionale gli eventi traumatici possono ricoprire un ruolo di grande importanza nel modulare la “plasticità” del SNC durante lo sviluppo e di conseguenza favorire l’iper-o l’ipo sviluppo di determinate strutture cerebrali. In termini genetici lo sviluppo del cervello è il prodotto degli effetti che le esperienze esercitano sull’espressione del potenziale genetico (Kandel, 1989). Ciò significa che le nostre esperienze influenzano in maniera diretta le modalità con cui i geni vengono espressi attraverso la sintesi proteica (trascrizione) e possono quindi avere effetti diretti sui processi che portano allo sviluppo dei circuiti neuronali promuovendo la formazione di nuove connessioni sinaptiche, modificando quelle preesistenti o agevolandone l’eliminazione (Kandel, 1989,1998; Post, Weiss, 1997). A livello cerebrale situazioni di stress sono associate alla secrezione di ormoni corticosteroidi i quali hanno effetti diretti sull’espressione genica (Post, Weiss, 1997; Schore, 1997; Kandel, 1998). Quando l’individuo è esposto ad una situazione stressante, le ghiandole surrenali immettono nel sangue una serie di ormoni, la cui quantità e tipologia dipendono da quanto l’individuo reputi nocivo quel determinato stimolo-stressor, e da quanto la situazione stressante perduri (Terr, 1994; LeDoux, 1996; Siegel; 1999). Se la condizione di stress perdura vengono aumentati i livelli quotidiani di produzione di cortisolo che causa la degenerazione dei dendriti e l’inibizione della crescita dei neuroni nell’ippocampo (Lombroso, Sapolsky, 1998; McEwen, 1998). Se queste condizioni sfavorevoli vengono mantenute per periodi di tempo più lunghi, la persistenza di elevate concentrazioni di queste sostanze può causare la morte neuronale. Immagini TAC hanno mostrato che bambini gravemente trascurati, maltrattati, o in situazione di grave carenza di stimolazioni, presentano un cervello significativamente più piccolo rispetto alla media e con sviluppo anomalo della neocorteccia. È presente inoltre una ridotta crescita dell’emisfero sinistro, che secondo alcuni studiosi può incrementare il rischio futuro di depressione (Teicher, 2000). Studi effettuati su animali hanno evidenziato che l’esposizione ad ambienti particolarmente stimolanti è invece associata ad una maggiore densità delle connessioni sinaptiche e ad un aumento del numero dei neuroni e del volume dell’ippocampo, struttura che sappiamo essere determinante nei processi di apprendimento e di memoria (Barnes et al., 1995; Kempermann et al., 1997; Hockfield, Lombroso, 1998). Un’attivazione cronica dei circuiti neurali coinvolti nella reazione di paura e stati di accentuata reattività all’ambiente possono portare a risposte fisiologiche che tendono a rinforzare e a mantenere nel tempo queste modalità di reazione attraverso la creazione di una “memoria permanente” che a sua volta modella le modalità di percezione e di reazione del bambino. In tal caso viene a crearsi uno stato di iper-attivazione: il bambino è iper-vigile e continuamente alla ricerca di quei segnali dell’ambiente che hanno un significato potenzialmente minaccioso (stimoli emotigeni avversativi). Secondo alcuni autori il bambino può addirittura fare in modo di suscitare un atteggiamento minaccioso nelle persone con cui interagisce in modo da poter affrontare una reazione a lui nota (quindi prevedibile). Le connessioni cerebrali che si sono create sulla base della sua esperienza gli rendono infatti impossibile reagire positivamente ad un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto (Perry, 1997). In psicoanalisi questa eventualità venne osservata a livello clinico nell’adulto e descritta inizialmente come “coazione a ripetere”. L’espressione venne utilizzata da Freud (1916) nel tentativo di dar spiegazione a quei comportamenti messi in atto dalle persone che risultano “imbrigliate” in meccanismi comportamentali disadattivi, autolesionistici e con forti componenti compulsive, che costringevano l’individuo all’infelicità. Fino a quel momento l’impianto teorico costruito da Freud non poteva dare spiegazione a tali comportamenti; all’epoca egli considerava infatti le persone in costante ricerca del piacere e in costante evitamento del dolore, idea che contrastava con le osservazioni cliniche che andava via via acquisendo. Dati empirici sempre più convincenti invitavano forse a riflettere sulla possibile primaria adattabilità del neonato al mondo circostante. È a questo punto che si inserisce il grande contributo dei teorici delle relazioni oggettuali. Anzitutto venne affermato che la libido non è orientata al piacere ma all’oggetto (Fairbairn, 1952). La spinta motivazionale fondamentale dell’esperienza umana non sarebbe quindi la gratificazione e la riduzione delle tensioni ma la ricerca di un legame affettivo con le figure di accudimento (osservazione che concorda con quanto stavano rilevando in quel periodo e nei rispettivi campi di indagine Winnicott, Bowlby, Harlow, Lorenz). I legami che il bambino crea con le figure primarie si struttureranno sulle specifiche forme di contatto che i genitori forniscono, diventando veri e propri “modelli di attaccamento”, che verranno conservati per tutta la vita (nella memoria implicita/procedurale definibile se vogliamo come “memoria relazionale”) e che plasmeranno anche i rapporti adulti con le altre persone (di particolare interesse ai fini del nostro discorso è di sicuro la relazione analitica). In quest’ottica la reiterazione delle esperienze dolorose viene vista come ricerca delle primordiali esperienze di attaccamento che, plasmando le modalità relazionali del bambino, continuano ad essere ricercate per tutta la vita. Precoci esperienze di sofferenza indurranno il bambino non ad allentare il legame, come dovrebbe accadere secondo il principio di piacere freudiano, ma a ricercarlo in futuro secondo modalità relazionali patologiche che le esperienze traumatiche hanno generato. Fairbairn riteneva a questo punto che non fossero tanto le pulsioni o i ricordi di per sé a formare il nucleo del rimosso, ma che quest’ultimo fosse costituito principalmente da rappresentazioni di “oggetti interni” che non possono essere integrate con alcuni aspetti della personalità: tali rappresentazioni potrebbero infatti portare la rivelazione di legami oggettuali minacciosi. In tal senso, le esperienze relazionali precoci possono essere caratterizzate da traumi che in alcuni casi mettono in crisi il sistema di attaccamento del bambino (Bowlby, 1969; Fonagy & Target, 2001) e minacciano l’organizzazione del Sé. Da alcune ricerche neurobiologiche emergere che un contenimento del neonato da parte della madre (“sufficientemente buona” direbbe Winnicott) e il contatto fisico con lei, sono elementi capaci di trasmettere affetti ed emozioni che promuovono nel bambino la liberazione di oxitocina e altre sostanze che riducono lo stress infantile (Mancia, 2007). Nei bambini vittime di maltrattamenti ripetuti in età precoce possono essere riscontrati danni cerebrali che riguardano, oltre all’ippocampo, il sistema nervoso autonomo, l’asse ipotalamo-ipofisario-adrenocorticale, i sistemi neuro-immunitari. Lo stress cronico determina uno sviluppo eccessivo delle regioni del cervello coinvolte nelle risposte di ansia e di paura (amigdala) e ad un contemporaneo iposviluppo di connessioni neurali di altre regioni cerebrali (Schore, 1997; Bremmer, Narayan, 1998; Perry, 2000; Teicher, 2000). Le esperienze traumatiche sperimentate nella prima infanzia possono interferire con lo sviluppo dei sistemi limbico e sottocorticale, il che può portare a gravi stati di ansia, depressione, nonché all’incapacità di stabilire un legame di attaccamento con altre persone. La facile irritabilità del sistema limbico può predisporre quindi secondo alcuni studiosi ad attacchi di panico o Disturbo Post-traumatico da Stress. Questo genere di “ricordi” possono venire registrati e rimanere impressi nei circuiti cerebrali (come parte della memoria implicita) e, se si ripetono nel tempo, tali stati possono in seguito venire attivati con maggiore rapidità, fino a diventare tratti caratteristici dell’individuo (Perry et al., 1995) o, come vuole la psicologia delle relazioni oggettuali, modalità relazionali caratteristiche. Il modo in cui il cervello si sviluppa sulla base delle esperienze, determina quindi le capacità cognitive, affettive e sociali, la personalità di base di una persona, nonché, sul versante patologico, la sua predisposizione ad ammalarsi sia fisicamente che psichicamente (Solano e Coda, 1994).

Memoria implicita e incoscio non rimosso: le implicazioni sulla teoria e sulla pratica clinica

Abbiamo visto l’importante ruolo svolto dalla memoria nella organizzazione delle prime rappresentazioni del bambino (e ancora prima quello che ricopre in epoca prenatale). Tutto ciò porta diversi autori a candidare la memoria implicita come corrispettivo dell’inconscio (e precisamente di quello definito “non-rimosso”) tradotto in termini cognitivi e psico-fisiologici. Si configura in tal caso la necessità di considerare questa entità come un insieme di processi traumatici non rimossi depositati nella memoria implicita, che non hanno mai raggiunto la coscienza, ma che continuano ad operare anche in età adulta e che sarebbe possibile rintracciare in analisi nel transfert e nel sogno (Mancia, 1998; Fonagy, 1999). L’implicito, dice Siegel (1999), è spesso convogliato nel ritmo vocale, nell’intonazione, nella cadenza, nel tempo e nel movimento e nelle sensazioni al di fuori del riconoscimento conscio. Fonagy (1999), chiama in causa la memoria procedurale, legata ad abilità motorie, percettive e cognitive, il cui ricordo è secondo l’autore richiamato in modo automatico ed inconsapevole. Questa componente della memoria corrisponderebbe alla “sfera dell’Io libera da conflitti” teorizzata da Hartmann (1939): attraverso la mediazione della memoria procedurale, il soggetto potrebbe registrare ed organizzare le esperienze precoci che portano alla costituzione del Sé. In questo quadro il fattore curativo potrebbe non essere tanto l’emergere nella memoria autobiografica di esperienze rimosse, quanto il manifestarsi della memoria procedurale nel transfert. Le esperienze che contribuiscono alle rappresentazioni interne delle relazioni oggettuali non sono solo immagazzinate nella memoria dichiarativa (esplicita), ma anche in quella procedurale (implicita). Alla base dei problemi interpersonali, della relazione di transfert e probabilmente anche di tutti gli aspetti della personalità, vi è un insieme di procedure o ricordi impliciti delle esperienze di interazione. Ne consegue che il recupero della memoria non dovrebbe essere considerato curativo in sé per sé. L’obiettivo terapeutico non è quindi solo il ricordo di un evento ma piuttosto un mutamento nel sentire e nel comprendere in rapporto ad una esperienza dell’infanzia (Fonagy, 2001). Gli autori citati concordano in linea di massima sul significato dell’analisi: essa rappresenterebbe il luogo dove memoria esplicita e memoria implicita partecipano insieme al processo ricostruttivo, la prima come parte di una memoria autobiografica, la seconda come esperienza pre-verbale e inconsapevole. Come afferma LeDoux, il sistema della memoria implicita e quello della memoria esplicita lavorano contemporaneamente anche nelle situazioni ordinarie: “percepiamo e filtriamo gli elementi della nostra memoria esplicita, attraverso i modelli mentali della memoria implicita” (LeDoux, 1996). La memoria implicita permette un recupero di esperienze pre-verbali che hanno partecipato in maniera importante alla costruzione del mondo interno del bambino; la componente esplicita, oltre al recupero di esperienze autobiografiche, ha il compito di facilitare l’emergere della memoria implicita nel processo di ricostruzione (Holmes, 2000) o interagire con quest’ultima nell’influenzare il comportamento relazionale (Davis, 2001).

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2 risposte

  1. Complimenti Stefano! Sei un neuroscienziato straordinario … fumante, direi.
    L’esimio dott. Manna, dopo aver visto la tua foto su questo sito, continua a chiedermi : “Ma i capelli, chi glieli acconcia?” Si direbbe che hai appena tolto il cappello da torero … OLE’
    La tua attempata

  2. Ahahaha! Cara Mia Dottoressa Attempata che piacere! tu e l’Esimio Professor avete ragione.. non trovo mai il tempo per pettinarmi.. e mi illudo di risolvere tutto indossando un cappello.. ora provo ad aggiornare il profilo ma temo che il risultato non cambi.. ci provo 🙂 ciaoo

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