Il Cervello. Storia, finalità, talento e intelligenza

intelligenza-artifCerchiamo di ripercorrere sinteticamente l’evoluzione filogenetica del cervello. Si inizia con una distinzione di fondo nella struttura anatomica del vivente dotato di mobilità. Quelli a bassa mobilità quali le meduse, gli anemoni di mare, le spugne ecc. vivono essenzialmente in ambiente marino. La loro configurazione anatomica è rotondeggiante definita simmetria radiale. Quelli a più alta mobilità si configurano con una simmetria bilaterale per cui si ritrovano con una parte anteriore (la bocca), una parte posteriore (l’ano), una parte superiore (il dorso) e una inferiore (il ventre). Naturalmente in questo tipo di struttura troviamo una gamma vastissima di esseri quali la sovracitata aplisia, le planarie, gli insetti, le stelle di mare e i cordati nonché i vertebrati. I gradi di mobilità variano sostanzialmente fra i primi e gli ultimi. Se è nella categoria di quelli più mobili che troviamo filogeneticamente uno sviluppo maggiore in termini di articolazione dei sistemi nervosi necessita ricordare che già a livello di una “planaria” troviamo un abbozzo di un cervello.

Abbiamo, quindi, già agli albori delle costruzioni anatomiche le più rudimentali dei cordoni nervosi che tendono a formare dei gangli cerebrali. Facendo un salto strutturale anatomico e guardando agli insetti ecco cosa scrivono Campbell e Reece: “Il sistema nervoso degli insetti comprende una coppia di cordoni neurali caratterizzata dalla presenza di diversi gangli segmentali intercalati. Cefalicamente i due cordoni convergono in corrispondenza del capo; a livello di tale regione i gangli corrispondenti a diversi segmenti rostrali si fondono dando luogo a una formazione cerebrale. Tale centro nervoso è localizzato dorsalmente vicino alle antenne, agli occhi e a tutti gli organi sensoriali concentrati in tale distretto cefalico. Grazie a queste strutture cerebrali gli insetti sono in grado di impegnarsi in comportamenti elaborati per quanto queste prestazioni risultino di natura innata (??). Questo vale anche per la complessa organizzazione sociale delle api e delle formiche che sembra essere di natura ereditaria.”

Si evince da tutto ciò un processo che, partendo da un rivestimento della “corda” precursore della colonna vertebrale, si ha un progressivo sviluppo del midollo spinale che procede e precede il diffondersi di forme craniali sia volumetricamente che qualitativamente più importanti. Se gli inizi della cranializzazione possono essere collocati verso i -500 milioni di anni, è verso i -250 milioni di anni che si differenzia il sistema neuronale con il cervelletto e il sistema limbico compreso l’ippocampo. La corteccia neuronale il cui sviluppo raggiunge i livelli più complessi con Sapiens emerge verso i – 200 milioni di anni. Ma anche la corteccia impiantatasi stabilmente con i mammiferi varia nel tempo nel senso che tra un mammifero più primitivo, una scimmia antropomorfa e un primate il numero di circonvoluzioni aumentano progressivamente rispetto a un inizio praticamente liscio. 11 sono le “volte” di un roditore e 28 quelle di un macaco.

Partendo dalla constatazione che le strutture cerebrali sono fra ciò che vi è di più complesso nel vivente e che la conoscenza delle stesse è in gran parte carente (essenzialmente per la massa delle interconnessioni tra i neuroni delle varie parti e la difficoltà di isolare funzioni specifiche ad aree anatomiche) ciò nonostante una grossolana panoramica può essere la seguente:

Dal tronco encefalico emerge una serie di microstrutture fra le quali troviamo quelle che controllano i sistemi di omeostasi (regolazione dell’organismo) e gli impulsi alla fame e alla sete nonché i flussi ormonali. Nella parte posteriore si colloca il cervelletto che si reputa prevalentemente legato ai sistemi motori. Salendo abbiamo l’ippocampo sede della memorizzazione (ma ricordiamo che l’aplisia priva di ippocampo riesce ugualmente a memorizzare stimoli elementari) e l’amigdala fonte delle emozioni e in particolare di quella basilare detta paura anche se, per quanto riguarda la più primitiva delle emozioni, si considera che operi già a livello del tronco encefalico. La zona limbica – così è chiamata quest’area – si completa con il talamo che rappresenta uno stadio di controllo motorio superiore e l’ipotalamo controllo dell’omeostasi ovvero delle funzioni base del corpo (ormoni-sessualità, temperatura, la fame e la sete ecc.)

Nell’ambito del sistema limbico vanno segnalate alcune particolarità che ci appaiono significative. La prima è che tra i non mammiferi e i mammiferi la struttura dell’ippocampo si presenta diversamente. Tuttavia, malgrado la diversità, si è potuta identificare un’omologia. Tale omologia è riscontrabile nelle similitudini chimiche e funzionali. Per la funzionalità si vede come le ricognizioni spaziali in insetti, rettili e pesci e quindi operazioni mnemoniche di immediata operatività si trasformino in sistemi di memoria di lungo termine aspecifiche. Rilevante è anche la diversa dimensione che si presenta con certa regolarità attraverso le specie per quanto riguarda la dimensione dell’ippocampo stesso tra femmine e maschi: i secondi presentando con una notevole sistematicità una dimensione maggiore.

Per quanto riguarda l’amigdala questa si divide in due parti: una centromediale e una corticobasolaterale. Quest’ultima è rappresentata per l’81 % negli umani, per il 52 % negli insettivori e per l6 % nei topi. Annotiamo semplicemente come anche l’amigdala si presenta come una discriminante tra specie e ciò si conferma, d’altra parte, con il fatto che questa componente del cervello legata all’emozione evolve in sintonia con tutto il sistema limbico. Ciò che, in qualche modo, giustifica la connotazione di “umano” all’umano dal momento che il telencefalo, nel linguaggio e significato corrente, non costituisce il tratto che definiamo “umano” dell’uomo (pur essendone la caratteristica discriminante principe…).

Tutto il sistema limbico si sviluppa ontogeneticamente (nella crescita) presso tutti i primati prima del telencefalo (di nuovo: rapporti onto- e filogenetici!) e presso le scimmie il rapporto volume limbico:resto del cervello è inferiore rispetto, ad esempio, agli insettivori. Ne ricaviamo che il ruolo dell’emotività, quale strumento cognitivo, scema man mano che aumenta la facoltà di analisi implicita nello sviluppo del telencefalo.

La struttura superiore avvolgente quella limbica è, appunto, la corteccia con le sue più o meno evolute circonvoluzioni. Essa si appoggia su di un’area ricurva detta cingolo ove la parte frontale è denominata cingolo anteriore e che collabora alla formazione degli stati d’animo o umori. A sua volta la corteccia si divide in un emisfero destro e uno sinistro. La parte sinistra sarebbe quella digitale che fornisce le facoltà razionali, di analisi e di verbalità. Quella destra, operante per analogie, rifletterebbe quelle della creatività. (Ciò lascerebbe, quindi, uno spazio all’attività analogica pur essendo la struttura fondante, il genoma, di natura digitale).

Un autore, il Mc Lean, pensò poter dividere l’insieme del cervello in base alla loro relativa rilevanza nel tempo e cioè in 3 parti: Una parte detta protorettiliana con riferimento alle funzioni della fame, sete, respiro e riproduzione; una seconda parte afferente i desideri, la collera, la paura e il dispiacere; infine la terza parte, la più recente, apparsa con i mammiferi più evoluti, esprimendo le funzioni superiori della corteccia. Questa suddivisione ha sicuramente una sua valenza anche se gli strumenti cognitivi attualmente a disposizione rendono difficili interpretazioni esatte tanto più quanto i crani fossili sono disponibili mentre i cervelli fossili non esistono.

Il neurologo A.. Damasio in “Emozione e Coscienza” divide la funzione cerebrale in 4 parti: (partendo dal basso) 1. Sistemi di autoregolazione del metabolismo, i riflessi legati a dolore, piacere. 2. Le emozioni divise a loro volta in emozioni primarie, secondarie e di fondo. 3. Sentimenti. Memorizzazione delle emozioni trasformate in configurazioni sensoriali. 4. Il livello della coscienza equivalente ai livelli superiori della ragione.

Per quanto divergenti le classificazioni del Mc Lean e del Damasio riflettono quello che intuitivamente ci si aspetterebbe sia in termini strutturali sia in termini evolutivi. Il problema nasce nella interconnessione fra le varie parti del cervello in quanto il più elementare dolore può divenire un elaborato emotivo, un sentimento e un tema di riflessione con ripercussioni sulla rilevanza del dolore stesso. La tristezza attivata a livello dell’ipotalamo e della corteccia prefrontale si ripercuote su tutte le aree fino a poter divenire elemento di disfunzione metabolica in seguito a ciò che chiamiamo depressione.

Si possono, tuttavia, effettuare ulteriori valutazioni utilizzando le specie esistenti e dando loro, con l’analisi molecolare e cladistica, delle diverse anzianità filogenetiche. Una di queste valutazioni è quella relativa al cosiddetto quoziente di encefalizzazione mettendo in rapporto dimensione craniale e dimensione corporea (“EQ=Encephalization Quotient”). Ne risulta, ad esempio, un EQ più alto dei carnivori rispetto alle loro prede; un EQ più alto per i fruttivori rispetto agli erbivori; un EQ più alto per le specie con cure parentali dei discendenti rispetto a quelle prive di queste; un EQ più basso per i componenti di una specie in domesticazione rispetto ai “tipi selvaggi”. Non sorprende come la proporzione del sistema limbico sul totale del cervello diminuisca in funzione della complessità comportamentale mentre cresce la quota del telencefalo (detto anche neocorteccia o semplicemente corteccia cerebrale).

Ritorniamo al nostro Piaget. E guardiamo alla categorizzazione del neurologo Damiaso. Non ci sembra lapalissiano immaginare una sequenza filogenetica generale per la quale un invertebrato quale l’aplisia o la planaria di cui sopra possano usufruire dei sistemi regolatori delle funzioni vitali aggiungendo grazie alla primordiali strutture nervose elementi di un’esperienza derivante dall’interazione con l’ambiente e che potranno consolidarsi strada facendo (filogeneticamente)? Non possiamo immaginare un rettile denotare emozioni primarie in particolare quella della paura e dalla correlata aggressività mantenendo nel contempo i sistemi regolatori e le esperienze acquisite dai suoi predecessori? Non possiamo intravvedere come anche presso un mammifero primitivo nasca una forma di empatia per cui alla sola paura si aggiunge la possibilità di una comunione solidaristica non foss’altro con i suoi prossimi e ai fini di una difesa comune? E se arriviamo ai primati non appare l’evidenza di una memorizzazione superiore con, ad esempio, la cristallizzazione delle emozioni e quindi l’insorgenza di ciò che chiamiamo sentimenti? E, quando, infine, la corteccia cerebrale permette una sofisticazione dei distinguo e delle analisi del reale, questa va a interagire con tutti gli stadi precedenti rimasti scolpiti nelle struttura del cervello sotto forma di incredibili reti di sinapsi la cui rigidità sarà tanto maggiore quanto maggiormente appartengono alle più antiche esperienze filogenetiche? E, soffermandoci sulle differenze che ci contraddistinguono dagli altri primati, non siamo sorpresi di come il telencefalo ci discrimina dai nostri convicini in quanto non siamo solamente suscettibili di effettuare una divisione aritmetica ma anche per il peculiare nostro comportamento sul piano “sentimentale” con la presenza di pianto e riso inesistenti nel resto del vivente? E, se per queste ultime due espressioni da noi definite sentimentali, dobbiamo rifarci alla presenza del telencefalo – quale conditio sine qua non – per poterle risentire non possiamo non stupirci della pervasività del telencefalo stesso in quello che appariva, di primo acchito, come un’espressione esclusivamente legata al più primitivo sistema limbico? Ci appare, allora, un cervello che, pur nella sua modularità e nella temporalità della sua costruzione, presenta un’inestricabile interattività interna che rende difficile ogni tentativo di analisi differenziale.

Nel frattempo constatiamo come la storia empiricamente verificabile delle reti neuronali viepiù complesse non è disponibile per ovvi motivi e, quindi, abbiamo uno scarso supporto paleontologico per convalidare le nostre ipotesi. Ma se procediamo ugualmente sulla nostra strada è perché le ipotesi alternative ci appaiono fallimentari. Allora la via più verosimile è quella di un accumulo di esperienze ontogenetiche registrate a livello neuronale e trasmesse transgenerazionalmente. Usando la metafora della valanga: l’accumulo delle esperienze raggiungendo un sempre maggiore grado di sofisticazione in un aspetto particolare della rete sinattica finisce per scatenare un’altra serie di interconnessioni fino alla costituzione di una nuova entità capace di ricezione diversa della realtà. Per fare un esempio concreto: L’esperienza della paura da parte dell’invertebrato che risente per tantissime generazioni stimoli ripetuti rivelatisi minacciosi per la propria sopravvivenza, si allarga, a un certo punto, per divenire contemporaneamente una nuova modalità di locomozione, un diverso apparato metabolico nonché un induttore di una permanenza di uno stato di paura non più specifico ma indefinito detto emozione primordiale. L’accumulo di un vissuto che non trova corrispondenza nella struttura anatomico/fisiologica (e, in particolare, in quella nervosa) rispetto alle esigenze derivanti dall’interazione con l’ambiente conduce a una “crisi”. Crisi significa stress e stress prolungato, lo sappiamo, produce modifiche a livello delle espressioni genomiche.

In termini sperimentali ci possiamo riferire ai lavori della Finley et al. dai quali si rileva come essenzialmente il rapporto E/Q (cranio/peso corporeo) costituisca il presupposto fondamentale affinché possa costituirsi una massa neuronale importante. Il numero dei neuroni resta l’elemento chiave nello sviluppo del cervello e, quindi della sua efficacia nel controllare e organizzare l’interazione con l’ambiente e il proprio corpo che dell’ ambiente è parte integrante. Quindi la dimensione corporea finisce per correlarsi significativamente con la spaziosità craniale. Ma un cetaceo come la balena si ritrova con un cervello gigantesco senza che si possa derivarne una funzionalità particolarmente più elevata rispetto a un primate. Vi è, quindi un problema di uso dello spazio craniale disponibile. Questo uso si riflette nel numero dei neuroni e nella galassia delle loro interconnessioni. Ora, dai lavori della Finlay risulta che la durata della neurogenesi è significativamente correlata al numero di neuroni.

La nascita di un neurone può dirsi compiuta quando il precursore della cellula neuronale non si divide più simmetricamente bensì in modo asimmetrico. In altre parole il neurone inizia ad allungarsi per raggiungere con il suo assone il sito di congiunzione previsto nell’ambito della globale struttura neuronale. Come per tutto il processo di sviluppo individuale/ontogenetico il neurone procede a una lunga marcia di avvicinamento verso il suo obiettivo guidato in questo da recettori chimici. Come avevamo già osservato per l’individuo nel suo complesso: maggiore è il tempo di gestazione maggiore è la complessità dell’individuo adulto. Così per il neurone: maggiore il periodo prenatale maggiore sarà il numero di neuroni che verranno ultimamente prodotti. Lo sviluppo del telencefalo è, quindi, frutto di una più lunga gestazione neuronale. Da qui l’elaborazione di una progressiva evoluzione del sistema cervello tramite una modifica nei tempi di realizzazione dell’individuo e dei neuroni. Più lunghi tali tempi maggiore la complessità ultima. Come si arriva a questi allungamenti della gestazione? Per conseguenze indirette e legate a casualità strutturali ? Di fatto tutta la tematica esposta inizialmente dal Gould che prevede una selezione naturale indiretta non può non lasciare perplessi. Tutta questa teorizzazione parte dal paradigma: la struttura precede la funzione. Prima vi deve essere la configurazione materiale e solo così l’utente di questa struttura potrà scoprire se serve a qualcosa. Il salto quantico della capacità volumetrica endocraniale che porta l’Australopiteco dai 500 gr. di cranio ai 750 gr. per l’Homo habilis circa 2 milioni di anni orsono fa sospettare che senza un tale evento di modifica strutturale non vi sarebbe nemmeno stata la variante comportamentale tra i due gruppi. Così si può dire per il fenomeno della variazione avvenuta -400.000 anni orsono quando Homo erectus lasciò lo spazio a Sapiens con il passaggio dai 1000 ai 1250 gr. di cranio. L’obiezione al rovesciamento del paradigma “prima la struttura e poi la funzione” è stata formulata con chiarezza da Klein: “se la funzione dovesse precedere la struttura nell’evoluzione del cervello perchè i nostri antenati di 40.000 anni fa non si comportavano già come i moderni?” Per estensione potremmo dire: “dal momento che la funzione principe del cervello è il controllo dell’interazione con l’ambiente perché Sapiens non è esistito agli albori del processo evolutivo ma si colloca nei tempi più recenti? La risposta neodarwiniana che ci verrebbe data essendo: perché le concatenazioni casuali non avevano fornito la struttura necessaria (il cranio) prima”.

L’obiezione di Klein, in realtà, pone il problema fondamentale di qualunque organismo vivente. Funzione o struttura. Cosa viene prima? Si tratta, ovviamente di una falsa domanda dal momento che una struttura non funzionale è materia inerte e una funzione senza struttura può solo essere una chimera dell’immaginazione. Non c’è hardware senza software e viceversa. Ma l’accelerazione dello sviluppo implica dei microchip con sempre maggiore capacità di elaborazioni per unità di tempo. Tuttavia questa ha un senso nella misura con cui si saranno sviluppati nuovi e più sofisticati software. E il software significa capacità di apprendimento. Dunque il superamento di questa falsa dicotomia proviene dall’apprendimento. E l’apprendimento (che sia onto- o filogenetico) che porta la struttura a essere più rispondente alla funzione ed è l’apprendimento che, nascendo dall’esigenza di una funzione, può generare una trasformazione della funzione stessa. Lo sviluppo di un sistema neuronale semplice (si fa per dire…) come quello della nostra planaria o aplisia che si evolve in un cervello adempie certamente alla funzione di poter affinare la ricezione degli stimoli che provengono dall’esterno, di poter meglio porgerli in relazione gli uni con gli altri (elaborare l’informazione) e, conseguentemente, ottimizzare l’azione da intraprendere per rispondere a una specifica esigenza a sua volta derivata dall’obiettivo primordiale di sopravvivere. L’indeterminazione con la quale si presenta il mondo al vivente è la condizione affinché una tale funzione abbia un senso. L’apprendimento porterà a una struttura più “efficiente” la quale si riverbererà sulla ridefinizione della funzione. Se il cervello della planaria serve a orientare meglio la direzione della sua locomozione di fronte ad uno stimolo segnalante pericolo anche la teoria della relatività – per richiamare l’altro estremo – offrirà nuove conoscenze sul mondo nel quale si muove il vivente e, in questo senso, potrà fornire, nel ben più lungo periodo, dei vantaggi in termini di sopravvivenza. La funzione generale (l’obiettivo di fondo) resterà immutato ma la funzione intermedia è, naturalmente, di ben altra natura. La qualità dell’apprendimento sarà diversa e il conseguente impatto sulla struttura pure. Il fossato temporale nelle forme cumulative dell’apprendimento riposa essenzialmente sul fatto che, per esempio, al fine di elaborare la relatività generale, Einstein non si trovava in pericolo di vita. Ma la sua curiosità – come tutte le curiosità – riconduce all’indeterminazione del mondo nel quale viviamo e alla basilare necessità di orientarci meglio in esso. Ovvero di controllarlo meglio per meglio sopravvivere. (Ipotizziamo per un istante che il problema della sopravvivenza non si dovesse porre qualora il singolo individuo fosse immortale. Quale motivazione avrebbe costituito la fonte per la re-azione dell’aplisia o dell’impegno conoscitivo di Einstein? La morte individuale di origine esogena o endogena è una condizione imprescindibile per qualsivoglia azione o re-azione di tipo adattativo).

Fino a poco tempo fa si ipotizzava la presenza di un ben definito limite all’apprendimento a livello individuale e derivante dalla sistematica perdita di neuroni per incapacità degli stessi a riprodursi. Il depauperamento sarebbe stato sistematico con il passare degli anni. Ora, recenti risultati esposti a un convegno sulle neuroscienze tenuto a Ginevra rivelano che alcune cellule staminali nell’ippocampo (ricordiamo: sede principale della memoria e dell’apprendimento) riescono a riprodurre cellule nervose se stimolate sia con attività cognitive sia per stimolazione elettrica. Sperimentazioni sui topi hanno permesso, inoltre, di osservare come le cellule così prodotte hanno la facoltà di spostarsi verso altre aree dell’encefalo e, in particolare verso il telencefalo (la materia grigia). Queste neocellule nervose non sono immediatamente operative ma lo divengono dopo qualche settimana e realizzano nuove sinapsi collegandosi con le loro colleghe più anziane. Tutte queste acquisizioni scientifiche sembrano puntare in un’unica direzione: la immensa plasticità del sistema cervello e le sue potenzialità rigenerative derivanti dalla stimolazione.

Dai dati a tutt’oggi disponibili si può asserire con una buona dose di affidabilità che QUANTO MAGGIORE E IL PERIODO DI GESTAZIONE DI UN COMPONENTE DEL VIVENTE – NEURONE O INDIVIDUO – TANTO MAGGIORE SARA IL SUO GRADO DI COMPLESSITA. Come si è potuto esaminare dalle tabelle presentate in precedenza ANCHE A LIVELLO DI UN SINGOLO FILA LA COMPLESSITA SI COLLEGA ALLE LUNGHE TEMPORALITA DELL’APPRENDIMENTO INTRA-O EXTRAUTERINO DI TIPO ONTOGENETICO. MAGGIORE SARA LA FASE CONCESSA ALL’APPRENDIMENTO MAGGIORE SARA LA PLASTICITA DELL’ORGANISMO SINGOLO E MAGGIORE SARA LA RILEVANZA DEL FENOTIPO. In parole più semplici: il determinismo del genoma andrà scemando con l’incremento di complessità del suo fenotipo. L’azione, strumento di più rapida adattabilità, si sostituirà alla trasformazione genetica con i suoi tempi necessariamente più lunghi. Di fronte ad un aumento improvviso della temperatura la reazione di un sistema complesso e mobile porterà al vantaggio di poter cercare ipso facto un riparo all’ombra mentre una struttura immobile o a mobilità ridotta o a limitata capacità percettività sarà alla mercé dell’evento imprevisto.

Solo in casi rarissimi si verificano delle regressioni nell’ambito delle linee filetiche ove la complessità precede temporalmente strutture e comportamenti più rudimentali. Ciò è così evidente nello sviluppo dell’operato di Sapiens che appare quasi come un’ovvietà. Ma, dal momento che tale linea evolutiva non si svolge su di un solo albero o un solo ramo e non presenta carattere di linearità ma offre soluzioni a binario morto nonché a elaborati di precoce complessità (vedi Volvox) tale osservazione porta in sé un insegnamento che non ci appare affatto trascurabile: SE L’APPRENDIMENTO RICHIEDE TEMPO E SE L’APPRENDIMENTO ONTO- E FILOGENETICO SI SONO DEFINITI NEL TEMPO POSSIAMO APPOGGIARCI AL COSTRUZIONISMO PIAGETIANO SENZA TROPPE REMORE E QUESTE COSTRUZIONI IMPLICANO RIUSCITE MA ANCHE FALLIMENTI. Nel contempo ritroviamo quel paradigma che ci indica come maggiori siano le conoscenze/strutture acquisite e minore sarà la temporalità per aggiungerne delle nuove. Il processo da estremamente lento diverrà sempre più rapido quanto maggiore sarà la rilevanza del fenotipo sul genotipo (vedi tav. Pag. 59). A livello del cervello ciò significherà una sempre più intricata interpenetrazione tra telencefalo e strutture limbiche fino al tronco encefalico. (La malinconia e la sua degenerazione cristallizzata detta depressione sono concepibili senza uno stretto interloquire tra telencefalo, ippocampo o memoria di lungo periodo e sistema limbico?)

Le strutture neuronali di base chiamate cervello riposano, a loro volta, sulla ricettività dei sistemi dell’organismo per quanto riguarda il legame con l’ambiente sia esterno che interno all’organismo stesso. Il dato di partenza è quello che proviene dall’esigenza di preservarne l’omeostasi. L’equilibrio, per quanto instabile, tra le varie funzioni costituisce l’elemento primordiale assicurato a monte dalla struttura del DNA e comprende ciò che noi chiamiamo i 5 sensi che agiscono da recettori. Ognuno di essi si ricollega a un organo specifico. Temporalmente il più primitivo può senza eccessive difficoltà essere attribuito alla percezione del tatto. Il con-tatto interno è, appunto, quello che segnala una disfunzione nella regolazione organica (rispetto all’esigenza di omeostasi). L’avvertimento che ne deriva si trasforma in dolore. La risposta a tale avvertimento è quella fornita dal sistema di autoregolazione o sistema immunitario. Quando è coinvolto tutto l’organismo (ad esempio una modifica della postura) possiamo parlare di autoregolazione. Quando si riferisce a un’area o a una funzione fisiologica specifica possiamo parlare di sistema immunitario. In ambedue i casi dei recettori segnalano un cambiamento. Questo può rivelarsi dannoso e ha come conseguenza il dolore oppure coniugarsi con una percezione favorevole all’omeostasi e segnalare piacere.

E’ utile precisare a questo proposito che le ricerche effettuate comparando i vari regni zoologici indicano una differenziazione abbastanza netta tra pesci, rettili e gli altri vertebrati per quanto riguarda la percezione del dolore. Il legame con un minimo di sviluppo neuronale-craniale appare chiaramente. Nel contempo, non è chiara la situazione a livello degli invertebrati. Una difficoltà presente nelle sperimentazioni effettuate per quanto riguarda il dolore è l’interferenza del fattore “paura” sovente indistinguibile. Appare, tuttavia, come il fattore paura (inteso come paura situazionale frutto di precedente esperienza) tenda a collocarsi a livelli più profondi del tronco encefalico che non il dolore. Quest’ultimo è suscettibile di essere azzerato da uno stato di paura elevato (non possiamo intravvedere come una minore articolazione neuronale e, quindi, una minore “comprensione” della natura della minaccia tenda a incrementare a tal punto l’angoscia o terrore dall’ammutolire le vie della percezione dolorosa: l’urlo di Munch non ci dice qualcosa di analogo relativamente al vissuto umano?). Più aumenta la capacità craniale e la complessità neuronale più si riduce il fattore paura lasciando il campo alla percezione dolorosa salvo, appunto, in situazioni estreme quando il terrore domina il campo sensoriale.

Con l’evolversi del sistema limbico queste primitive ricettività, grazie all’emergenza dell’emozione, possono indurre comportamenti specifici al fine di spegnere o attivare i due tipi di percezione. (Fino all’intervento odierno dell’anestesia che annulla i centri di trasmissione eliminando completamente la ricettività primordiale funzionale all’omeostasi). Ogni organismo vivente è dotato di questi recettori (si può supporre ad eccezione dei microorganismi procarioti). Le variazioni nelle intensità di ricezione sono rilevanti sia inter- che intraspecificamente. L’analisi dei differenziali è estremamente difficile dal momento che questa ricezione primordiale non produce differenze quantitativamente misurabili.

Il gusto, con ogni probabilità, è un contemporaneo del contatto corporeo dal momento che l’assunzione di cibo è una costituente imprescindibile della sopravvivenza e richiede, quindi una discriminazione del cibo stesso in funzione della propria fisiologia. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di un differenziale percettivo è arduo se non in termini di acidità o alcalinità perché, altrimenti il differenziale riposa sulla composizione chimica dei cibi ingeriti.

La vista appare agli albori della multicellularità. Quanto la vista discrimini la realtà tra le specie e anche se in misura minore, tra gli individui, è cosa nota e la complessità dei sistemi neuronali si sviluppa attorno all’occhio anche se primitivo come quello della planaria. La sofisticazione dei sistemi visivi nel tempo pone, nuovamente, la problematica del loro sviluppo (somma casualistica di modifica con successiva selezione darwiniana o mutazione funzionale e, su di una gamma limitata di proposte anatomico/fisiologiche, selezione delle più adatte all’ambiente) resta uno dei temi fondamentali del dibattito evolutivo.

L’udito e l’olfatto appartengono alle funzioni emerse agli albori dell’evoluzione e forniscono uno strumento di percezione che infrange la barriera della visuale dal momento che l’odore e il suono possono trascendere gli ostacoli che impediscono la vista. In questo contesto va segnalata la rilevanza nel cranio dei protovertebrati del bulbo olfattivo che solo tardivamente lascerà lo spazio alla corteccia cerebrale. Nei primi mammiferi si è formato un circuito composto dal bulbo olfattivo, la corda dorsale e l’ippocampo. Evidentemente l’utilizzo dell’olfatto, molto rilevante, aveva prodotto un sistema di memorizzazione e reazioni a se stanti. Contrariamente ad un’impressione intuitiva i pesci conoscono da subito un sistema olfattivo che si situa in aree laterali della specie e va ricordato come il nostro orecchio funzioni anche in base ad un liquido che ne registra le origini acquatiche. Così alcune specie di mammiferi acquatici utilizzano dei sensori che agiscono rispetto a onde di lunghezza estremamente brevi.

Ciò che appare in modo eclatante è la DIVERSITA NELLE STRUTTURE RICETTIVE SENSORIALI CHE PORTANO A DIVERSE VISIONI (IN SENSO LATO) DEL MONDO E CHE, AD ESEMPIO, NON CI PERMETTONO DI VEDERE CON GLI STESSI OCCHI UN MONDO CHE RIPOSA SU DI UN SOLO PIGMENTO RISPETTO AL NOSTRO CHE DISTINGUE LE LUNGHEZZE DI ONDA LUMINOSA TRAMITE TRE PIGMENTI. Cosa ci permette, allora di interpretare un comportamento di una specie che non ha i nostri stessi strumenti ricettivi della realtà?

In base a quanto precede e tornando a livelli di maggiore concretezza potremmo chiederci come mai il cervello dello scimpanzé non ha avuto analogo sviluppo a quello dell’ominide? La base telencefalica esisteva per ambedue nel comune antenato. Lo sforzo per utilizzare tale base non poteva essere così diverso salvo nel caso in cui le altre condizioni ambientali (nel senso più lato e che comprendono anche le strutture corporee) non fossero nettamente divergenti. Oppure, come ci spiegherebbero i neo-darwiniani, in quanto mutazioni casuali genomiche istruivano diversamente il fenotipo emergente. Ma se vi è una problematica in cui il casualismo lascia perplessi questa ci pare essere, senza ombra di dubbio, quella relativa allo sviluppo del cervello. Se ci riferiamo al legame tra periodo di gestazione o di apprendimento e sviluppo neuronale e cerebrale si ripropone il problema del come si è allungato tale periodo. Quale selezione a posteriori poteva favorire la durata della gestazione in quanto tale? E se la risposta è quella di sempre: la intrinseca casualistica variabilità del vivente perché non concepire che tale variabilità di fatto non costituisca una non casuale progressione in senso adattativo per un’interna propulsione dovuta a una spinta implicita nelle interrelazioni INTERNE dei sistemi vieppiù complessi? E da qui l’accelerazione di cui parlavamo in precedenza.

Come inserire allora questa fondamentale divergenza fenotipica – che NON si correla a una rilevante differenza genotipica – nella più vasta interpretazione della filogenesi senza ricorrere al casualismo che, notoriamente, spiega tutto e niente? In questo procedere analitico la controfattualità esplica un suo ruolo essenziale in quanto suggerisce le alternative insite nella potenzialità probabilistica e svelano, così facendo, la solidità o meno delle ipotesi relative a ciò che effettivamente è accaduto. Si ripropone così la problematica che abbiamo sollevato agli inizi di questo saggio ovvero quanto sia assimilabile una storiografia dello sviluppo umano con quella filogenetica che comprende non solo temporalità diverse ma include pure le trasformazioni biogenetiche.

In questo contesto si potrebbe inserire la diatriba che ha caratterizzato la nascita del linguaggio presso Sapiens. Tale diatriba sfociò nell’incontro di Royaumont descritto da Piattelli Palmarini ove si scontrarono i due principali rappresentanti delle due interpretazioni: Jean Piaget e Noam Chomsky. In estrema sintesi si può descrivere la contesa come chi pensa che la nascita del linguaggio sia un processo di costruzione frutto di un’interazione tra bambino e ambiente (Piaget) ed uno che afferma la priorità di un innatismo espresso da una struttura sintattica preesistente e comune a tutte le lingue (Chomsky). In questo caso le lingue non sono che un adattamento culturale di una struttura soggiacente ed è questa l’invariante che conta. L’apprendimento linguistico, allora, non è più una costruzione derivante da una interattività bensì lo sviluppo deterministico in base ad una premessa che porta in se il suo futuro. La singola lingua diventa un epifenomeno di uno schema comune e trasmesso biologicamente.

La nostra impressione è che la contrapposizione sia stata frutto di una visione parziale nei due campi. Per quanto riguarda Piaget egli non solo era cosciente del substrato biologico dal quale necessariamente partiva la costruzione della conoscenza ma aveva anche espressamente affermato “…Il fenomeno fisico non è accessibile se non tramite un quadro logico-matematico già alla prima osservazione…” cosa che coincide con l’affermazione di “essere un Kantiano in movimento”. Per Jean Piaget l’origine della sua curiosità scientifica si collocava nella – da lui, non a torto, definita stupefacente – congruenza tra la conoscenza scientifica e la realtà osservata. Di qui la necessità di comprendere come nasceva ontogeneticamente l’oggettività. Tuttavia è chiaro che il salto che qui proponiamo e cioè quello di equiparare sviluppo epistemologico con filogenesi bio-logica non rientrava di certo nei suoi schemi mentali per lo meno quelli apertamente dichiarati. D’altra parte la sua esigenza di sperimentalità esemplificata da una vita dedicata all’osservazione dello sviluppo del piccolo uomo non gli permetteva di esprimere concetti non supportati da adeguati dati provenienti dall’osservazione sistematica. (Che poi è il vero nostro problema e che superiamo accettando di essere congetturali sapendo che lo stesso Piaget ci avrebbe letto con scetticismo…ma, forse, non troppo…).

Il problema di Chomsky relativamente alla diatriba con Piaget non ci pare quello di chi potenzialmente sostiene una tesi errata bensì quello di chi non dice come quella struttura sintattica soggiacente a tutte le forme linguistiche si sia formata. D’altra parte i concetti innati di Kant quali causalità, spazio e tempo fornivano da tempo substrato all’esistenza di strutture umano-specifiche per le quali derivare un’innata sintassi era solo un particolare aspetto della posizione filosoficamente acquisita. Ma dando per buone queste strutture innate si doveva in qualche modo dare una spiegazione sulla loro origine. Se questa non era divina (e Chomsky non può di certo inserirsi tra i metafisici) come si era “costruita”? Il vero dibattito tra le due scuole di pensiero doveva, in realtà, essere questo. Ma come fossero sorte le categorie “innate” trascendeva i due diversi sistemi causali a confronto.

Ricordiamo ancora una volta l’osservazione fatta dallo stesso Chomsky in “Riflessioni sul linguaggio” per cui “…i sistemi determinati biologicamente iniziano a funzionare solo dopo che si sia raggiunto un certo stadio di maturazione o dopo un’esperienza che scatena la messa in attività”. Questa constatazione d’una parte ricongiunge il costruzionismo Piagetiano dal momento che implica uno sviluppo ulteriore dell’acquisito biologico (l’apprendimento e la rielaborazione successiva) e, d’altra parte, si associa ai processi di gestazione quale elemento essenziale per la crescita individuale. In particolare è coerente con l’osservazione sperimentale della Finley sul legame tra durata della gestazione e complessità neuronale dell’adulto. (E non solo neuronale). Infine può essere collegata con l’insorgenza dell’attività immunitaria che caratterizza la difesa dell’omeostasi del vivente la quale si realizza solo dopo che il singolo individuo nasce e si trova esposto a corpi estranei mentre rimane latente come sistema a livello del feto. Come si può, quindi, constatare vi è una notevole convergenza su diversi piani tra l’acquisito biologico e l’apprendimento successivo che implica l’interazione con l’ambiente affinché il primo aspetto possa esplicarsi in tutta la sua fecondità. Tutto ciò non risponde ancora al quesito su come l’appreso possa divenire un acquisito biologico.

Come ci racconta Eva Jablonka in “Evolution”, Chomsky – che non poteva più evadere il problema dell’insorgenza della struttura sinattica universale del linguaggio – propose una teoria che implicava la convergenza di tre aspetti evolutivi: il sistema sensori motore che permette la vocalizzazione della parola e il sistema auditivo; la parte dello sviluppo intellettivo che permette la costruzione di concetti e di relazioni e, infine, un sistema computazionale possibilmente derivato dalla razionalizzazione numerica che, a un certo punto dell’evoluzione, agì da connettore tra i primi due elementi. Mentre i primi due sistemi erano già presenti nel nostro comune progenitore il terzo elemento divenne attuale esclusivamente con gli ominidi. Potremmo dire che la formulazione dei rapporti quantitativi era il tramite affinché gli strumenti sensori potessero essere utilizzati significativamente dalle facoltà intellettuali concettuali-discorsive. In questa descrizione ritroviamo un’interpretazione causale che riposa sul concetto Gouldiano che abbiamo descritto a proposito dello sviluppo del cranio e che consiste nell’affermare che un processo evolutivo può generarne un altro totalmente scorrelato dal primo (vedi l’insorgere delle piume quali elementi protettivi rispetto a una temperatura rigida e che, successivamente, si rivelano fecondi ai fini del volo). Questo concetto dell’”exaptation” ci pare un meccanismo, come già detto, possibile ma eccezionale. Esso rientra in un tipo di casualità che porterebbe tale principio a una sua estensione più ampia raggiungendo così finalmente la premessa del neo-darwinismo da noi contestata appunto nella sua parte casualistica. Nel caso specifico: per quale motivo avremmo avuto uno sviluppo coincidente dei tre elementi in questione (anche se i primi due, dicono i Chomskyani, precedono il terzo esclusivamente Sapiens specifico)?

Dal punto di vista della nascita del linguaggio troviamo un’interpretazione neo-darwiniana esposta da Smith e Szathmary (“Le origini della vita”) che si può riassumere come segue: la mutazione casuale difficilmente può spiegare la costituzione di una sintassi universale tale da permettere la successiva costruzione grammaticale dei diversi linguaggi operativi. Quindi si impone “un apprendimento per assimilazione genetica (guarda un po’…)”. Essi ci dicono che “più precoce è la fase della vita in cui l’individuo si imbatte nella combinazione esatta (in termini sintattici n.d.r.) più alto sarà il numero di discendenti che costui immetterà nella generazione seguente. La selezione naturale favorirà i più articolati che avranno appreso di più e questo processo produrrà sistemi innati sempre più efficienti”. Cosa si può dire al proposito? Che non si vede il nesso tra numero di discendenti e la qualità dell’appreso né tanto meno risulta che l’articolazione linguistica costituisca un evidente vantaggio in termini di dominanza sociale (si può, forse, sostenere la tesi opposta). Gli stessi autori citano una ricerca effettuata da Myrna Gopnik che ha esaminato un gruppo familiare nel quale svariati membri soffrono di disfasia e, in particolare, non arrivano a formulare verbi al passato ne usare il plurale. E alquanto triviale l’osservazione secondo la quale ritroviamo specifiche capacità trasmesse “geneticamente” (la peculiare continuità generazionale nell’ambito dei musicisti è solo frutto dell’esposizione che da piccoli hanno avuto con la musica??) Che, nell’ambito di una specie, vi siano differenze rilevanti da tutti i punti di vista possibili implica anche differenze a livello delle funzioni cerebrali e che queste abbiano connotazioni transgenerazionali è un’ovvietà. Che queste differenze producano necessariamente selettività riproduttiva è molto meno ovvio. Ma che il salto volumetrico del cranio dagli ominidi a noi sia riconducibile esclusivamente a tali termini è ciò che ci appare improbabile e tale discorso si estende anche alla nascita filogenetica del linguaggio o di un protolinguaggio. Il problema dell’inserimento dell’appreso ontogeneticamente nell’evoluzione filogenetica rimane nella sua interezza.

Si può forse sostenere che questo piccolo trattato ha la presunzione di mediare tra le due posizioni (quelle Chomsky e di Piaget) andando alla radice evoluzionistica che, delucidata, troverebbe sicuramente l’accordo dei due contendenti e loro discepoli. Noi non abbiamo dubbi sulle risultanze delle analisi di Chomsky e non ne abbiamo su come, date queste categorie aprioristiche, vi siano successivamente dei processi che inducono ad una sempre maggiore distacco tra osservatore ed osservato che significa, semplicemente, l’incremento di oggettività. E che questi processi portino anche a una ridefinizione a livello conoscitivo degli “a priori”. Se il bambino recepisce la durata in quanto tale solo verso il nono anno di età mentre prima valuta esclusivamente velocità relative tra oggetti in movimento è perché la discriminazione della realtà si è lentamente imposta tramite un lungo lavoro interattivo che noi definiamo apprendimento. Che, tuttavia, già alla nascita fosse operante un “prima” e un “dopo” quale conditio sine qua non per agire è altrettanto evidente. In questo senso può essere letto l’apriorismo Chomskiano di una sintassi originale. Ma con una differenza fondamentale: tale sintassi si è scoperto non è disponibile presso uno scimpanzé nemmeno sotto forma di struttura segnaletica e non linguistica. Mentre il “prima” e il “dopo” sono forme costitutive probabilmente di tutto il vivente. E, allora, torniamo al nostro quesito di cui sopra: cosa ha impedito al primate scimpanzé di sviluppare una scatola cranica e una conseguente massa neuronale com’è avvenuto per noi? Perché, quindi, nell’uno abbiamo l’emergenza di una sintassi linguistica e nell’altro no? Di fatto, la Prof. Jablonka ci indica l’esperienza fatta presso un bonobo denominato Kanzi che avrebbe spontaneamente creato un sistema di comunicazione preverbale fino a recepire, quale esempio, la frase “porta una Coca Cola alla Rosa”. Quindi presso i Simiens avremmo già una facoltà segnaletica di comunicazione relativamente complessa. D’altra parte l’esistenza di una rudimentale vocalizzazione concomitante a un minimo di corteccia cerebrale (esemplificata dall’uso di certi strumenti per l’approvvigionamento di cibo che portano inevitabilmente a tale constatazione) è certamente una premessa per un ulteriore sviluppo. Ma il salto quantitativo-qualitativo fino a una complessa struttura linguistica universale può inserirsi in un tale filone evolutivo o vi è un fossato maggiore rispetto a quello che separa Archimede da Einstein?

Un aiuto nel tentativo di ricostruire il processo evolutivo che va da un proto-linguaggio (fase che ci pare difficilmente evitabile) ci può, forse, venire da un’osservazione fatta da sperimentatori del King’s college di Londra che indagano sui rapporti tra genoma e intelligenza nell’uomo. In particolare si è potuto assodare come l’impatto della predisposizione genetica (misurata con l’antico sistema del test I.Q. che, ovviamente non può coprire per esteso ciò che chiamiamo intelligenza, ma che resta un parametro significativo in termini relativi e non assoluti) si massimizzi con l’aumento dell’età. Contrariamente a quanto apparirebbe intuitivamente il differenziale tra gli individui aumenta con l’età ed è ridotto ai primordi della vita individuale. Concretamente ciò significa che un bambino dotato in matematica si differenzierà dagli altri maggiormente in età avanzata. Ciò si correla d’altra parte con la propensione evidenziata dall’esperienza per cui le scelte professionali saranno in gran parte effettuate sulla base delle proprie capacità. Il bambino con prestazioni più elevate in una data materia tenderà a specializzarsi in quella materia e acquisire, quindi, una formazione superiore in quel campo (relativamente agli altri). L’I.Q. sappiamo, premia le capacità logico-deduttive. Malgrado, quindi, la limitazione di questo strumento pare interessante pensare che il ruolo dell’apprendimento durante l’esistenza finisca per massimizzare la predisposizione. (Che esistano delle predisposizioni geneticamente determinate ci pare fuori discussione. Meno evidente, tuttavia, è il ruolo che svolge nell’ulteriore apprendimento la motivazione ad approfondire tali propensioni “naturali”).

Ora, alla luce di tale processo incrementale con l’avanzare dell’età nel distinguere i singoli individui, possiamo ipotizzare che, anche filogeneticamente, l’incremento dell’età media dall’australopiteco all’attuale Sapiens (notoriamente correlata con la capacità craniale) abbia costituito un elemento fondamentale nello sviluppo dell’espressione genica a livello cerebrale. Si stima che all’incirca 3000 geni codifichino le aree cerebrali e veicolino i neuroni nelle loro postazioni anche se questi dati vanno presi con cautela allo stato attuale delle conoscenze. Se, con l’aumento dell’età media, la loro espressione si massimizza potremmo dedurne che per il processo di assimilazione (epigenetica e, poi, genetica?) ci si potrà ritrovare con un processo cumulativo di tipo Lamarckiano. In effetti, la selezione delle potenzialità cerebrali nel senso Darwiniano, come, accennato in precedenza, non appare molto convincente e ciò tanto meno quanto i dati raccolti al King’s College paiono orientare in senso opposto le cause dello sviluppo spostando l’accelerazione dall’infanzia all’età adulta. In questo senso la sintassi universale di Chomsky diventa un precoce elaborato dell’intelligenza alla stessa stregua con la quale si arriva alla formulazione della ruota quale elemento primordiale ma indispensabile allo sviluppo del trasporto in generale. Si è realizzata la ruota del linguaggio. Così come, partendo dall’osservazione del minor attrito prodotto da una sfera si poteva arrivare alla ruota si arrivò a una strutturazione del linguaggio essendo gli elementi basilari di natura ripetitiva e “economicamente” più vantaggiosi. Tuttavia, se i dati forniti dagli scienziati Londinesi sono estendibili all’espressione linguistica dobbiamo inferirne che è nell’età adulta che le diverse abilità individuali si differenziano maggiormente. Se effettuiamo un transfer dall’ontogenesi alla filogenesi (operazione non sempre lecita né automatica ma più spesso di quel che si crede utile) dovremmo ipotizzare un processo di maturazione progressivo nell’acquisizione dell’attuale struttura linguistica universale e, quindi, tornare all’ipotesi già formulata, di un proto-linguaggio nel quale potevano esistere gli elementi rudimentali attualmente operanti ma lontani da questi ultimi. Piaget ci direbbe che le attuali strutture innate si sono “costruite” geneticamente così come si costruiscono le differenze individuali tramite l’interazione durante la vita individuale.

Interessante, a questo proposito, ci appare la seguente raffigurazione dell’evoluzione dei simboli scritturali in lingua cinese (Fig. 9):

Fig. 9: Evoluzione simboli scritturali in lingua cinese

 

La progressiva trasformazione da una figura assai concreta (per quanto, ovviamente, già stilizzata) al simbolo totalmente astratto porta abbastanza chiaramente a intravvedere l’accelerazione di una frase composta da segni concisi piuttosto che un’analoga frase coinvolgente figure intere. Questa accelerazione riflette assai bene tutto il processo nella costruzione di sinapsi sempre più complesse. Il relativo successo tecnologico occidentale si riflette anche nell’ulteriore digitalizzazione con le lettere dell’alfabeto. Più astratto è il simbolo maggiore è la possibilità di velocizzare le composizioni ma anche superiore diventa la strutturazione grazie alla semplificazione dell’unità costituente. Tentando un parallelo con il linguaggio si sarebbe portati ad affermare un analogo processo a livello fonetico nel qual caso l’innato Chomskiano di una struttura sintattica omnicomprensiva diventerebbe una formulazione filogeneticamente a posteriori rispetto a un livello di astrazione già consolidato.

E’ opportuno annotare come Chomsky insista sulla particolarità della struttura innata che permette l’accesso al linguaggio quale esso sia. Molti autori non dissociano questo specifico apprendimento dai processi più generali di qualunque apprendimento. Quindi, per Chomsky, la scoperta della ruota è un pessimo esempio data la specificità delle elaborazioni dell’intelletto. Di fatto sappiamo che l’abilità linguistica si concentra prevalentemente nella temporale sinistra del cervello. E, come abbiamo visto in precedenza, il nostro organo “di eccellenza” presenta caratteristiche modulari. E, quindi, data l’importanza del linguaggio nella nascita filogenetica (e, ovviamente, ontogenetica) di Sapiens la lateralizzazione della funzione non stupisce più di tanto. Contemporaneamente, tuttavia, le interconnessioni di qualunque sottosistema di un organismo e in particolare del cervello non significano rigide segmentazioni. La costruzione filogenetica di reti sinattiche specializzate e, conseguentemente, più rigide e geneticamente determinate sembra essere la regola ma sempre con il limite dell’intricato rapporto con le altre funzioni ivi comprese, ad esempio, quelle dell’ipotalamo e della produzione ormonale. Queste interrelazioni appaiono intuitivamente evidenti ma le conoscenze in materia restano eccessivamente limitate perché si possa andare al di là di una generica affermazione di principio.

Possiamo, a questo punto, tentare di riassumere funzione, struttura ed evoluzione del cervello di Sapiens:

  1. La struttura del cervello presenta una reticolarità e interattività interna ed esterna che ci induce a un parallelismo con i geni (neuroni), cromosomi (segmentazione di aree del cervello) e funzione: interazione tramite il fenotipo con l’esterno (interazione tramite i sistemi percettivi degli stati interni ed esterni); memorizzazione di breve termine relativamente irrilevanti per il genoma e di maggiore rilevanza per il cervello; memorizzazione di lungo termine fondamentale in ambedue i casi; infine funzione di rielaborazione per via epigenetica nel lunghissimo termine per il genoma e rapidità nella rielaborazione del cervello; comunanza nella digitalizzazione quale modalità preferenziale.
  2. Le differenze tra le due strutture si caratterizzano per la scarsa flessibilità del genoma e l’enorme flessibilità del cervello con la conseguenza, come già detto, di operare con temporalità radicalmente diverse. Le “rivoluzioni” genomiche richiedono processi plurigenerazionali. Quelle del cervello possono ridursi a poche generazioni.
  3. L’apprendimento è l’invariante nelle due strutture ma sempre con temporalità diverse. Le temporalità si modificano con il cambiamento paradigmatico nella modalità crescente dell’individualizzazione.
  4. La co-presenza di sistemi filogeneticamente distinti quali il sistema limbico e la corteccia costituisce di per se un costante problema di aggiustamento reticolare che richiede sforzi di rielaborazione che, a loro volta, portano a nuove interconnessioni che possiamo ridefinire alla stregua di una caratteristica quale quella di un sistema immunitario ex-ante.
  5. Nel contempo persiste un condizionamento epigenetico e, in ultima istanza, genetico. Questi reticoli che chiameremo innati sono a loro volta frutto del complesso evolutivo. A loro volta costituiscono e un freno e uno stimolo a nuove ricombinazioni. L’effetto Westermarck al quale abbiamo fatto riferimento a proposito dell’incesto è un esempio di questo tipo di condizionamenti con i quali la plasticità dei reticoli cerebrali si trova confrontata. Come ricorda E. Wilson ne “L’armonia meravigliosa” facendo riferimento a W. Durham della Stanford University: su 60 società umane esaminate 56 hanno elaborato un mito per motivare il tabù dell’incesto e solo 4 lo hanno giustificato con il carattere deleterio dell’omozigotismo dal punto di vista della salute. E il caso classico di una risposta mitologica all’osservazione di una prassi consolidata senza che se ne conoscano i nessi diretti. Queste carenze conoscitive in termini scientifici portano facilmente a teorizzazioni legislative di tipo eugenetico o repressive. Ancora oggi il nesso non è stato chiarito, ma si rinuncia a conseguenti mitizzazioni. L’aggiustamento tra tradizione epigenetica (di fatto l’incesto è rifiutato con la prossimità infantile), indicazione di tipo morale (anche senza elementi coercitivi) ed elaborato cerebrale non è che uno dei tanti esempi di una realtà vissuta e che si pone problematicamente agendo così da motore per la realizzazione di nuove sinapsi e reticoli. (Freud e seguaci tentando di dare una risposta al problema hanno creato danni conoscitivi ma, nel contempo, hanno certamente attivato nuove interconnessioni reticolari per il mero fatto di aver portato più cervelli a impegnarsi su questo fronte).

Come si può raffigurare allora il legame tra il lento genoma (in termini di apprendimento) e il ben più rapido sviluppo degli intrecci neuronali?

Pierre Roubertoux e Michèle Carlier in (EMBO reports 2007) ci forniscono uno schema con i due tipi di interpretazioni (Fig. 10):

Fig. 10: Interpretazioni delle relazioni fra genoma e sviluppo neuronale

 

Ritroviamo qui le due ipotesi: quella A) che rappresenta un concetto obsoleto che presume un isomorfismo tra i 3 livelli e quella B) che offre relazioni non lineari. Ogni gene a), b) e x) si presenta con diversi alleli come illustrato dalle diverse freccette. Inoltre essi interagiscono tra di loro come illustrato dalle frecce verticali. I moduli del cervello di uno o più neuroni, a loro volta interagiscono tra di loro (vedi le frecce verticali nel modulo cervello). Ogni circuito cerebrale realizza diversi tipi comportamentali sia da solo o in congiunzione tra di loro. Infine le modifiche nei comportamenti regolano a loro volta le funzioni cerebrali e, infine, si ripercuotono sulle espressioni genetiche.

Riportiamo nuovamente le considerazioni del Prof. Chung I Wu dell’Università di Chicago: “Più complesso il cervello più difficile diventa per i geni modificarsi. Calibrando i dati relativamente alla media genomica appare che l’espressione genica presso gli umani si è evoluta più lentamente che non negli scimpanzé o nei più primitivi simiens”. Se, in apparenza le trasformazioni genetiche delle specie più complesse presentano un’accelerazione rispetto alle specie di più vecchia data quest’ordine sembra invertirsi guardando ai tassi evolutivi dei geni legati al cervello. I geni correlati al cervello appaiono in più lenta trasformazione rispetto a quelli dei macachi e questi sono in più lenta trasformazione rispetto ai ratti. Ne deriva anche una dissonanza evolutiva tra geni correlati con il cervello rispetto ai geni legati ad altri tessuti e ciò nell’ambito della stessa specie. Aggiunge Wu: “Sappiamo che le proteine con più partner interattivi evolvono più lentamente. Mutazioni che interrompono legami interattivi multipli sono meno tollerate”.

Quando si hanno sistemi complessi che operano a velocità altissime con un numero elevato di interconnessioni che si costituiscono per poi eventualmente dissolversi per formare nuove connessioni si creano automaticamente dei processi autogeneranti che risultano dal continuo riordinamento nell’ambito del sistema stesso. Le contraddizioni che costituiscono un ostacolo nel nostro procedere intellettuale sono anche gli ostacoli a livello dei sistemi neuronali. Le incompatibilità vanno risolte. Senza la loro risoluzione tutto il sistema va in crisi (così come va in crisi l’uomo dai comportamenti contraddittori rispetto ai parametri di riferimento del sistema.) In questo senso possiamo parlare di un processo auto generante, perché si formano in continuazione nuove contraddizioni derivanti dall’ininterrotto ribaltamento delle connessioni. La necessità di un sistema integrato come quello neuronale genera automaticamente la propensione alla sua risoluzione e quindi alla sua modifica. Il genoma, cervello rallentato, non può seguire queste perenni rivoluzioni se non tramite canalizzazioni di lungo periodo, recependo quelle risoluzioni delle contraddizoni nell’ordinamento cerebrale che si sono rivelate più durature nei tempi flogenetici.

Pare utile, a questo punto, un excursus sui concetti di finalità, di funzione e di cognizione. Si può parlare di finalità solo ed esclusivamente quando ci troviamo di fronte ad un comportamento del vivente. (L’eventuale finalismo divino è area che non ci compete in questa sede). La finalità nell’operare del vivente può trasformarsi in mezzo per una finalità di ordine superiore o più astratta in una catena ove i due termini possono essere impiegati alternativamente. La finalità implica che raggiunto l’obiettivo l’azione orientativa alla quale si riferisce si esaurisca. In questo senso parlare della sopravvivenza del vivente come finalità significa doverla collocare nell’ambito delle finalità la cui presenza si fa sentire solo quando si presenta il rischio dell’annientamento. Di fatto tale rischio è sempre presente e, quindi, detta continuamente il comportamento anche se non vi è emergenza. Tuttavia la sua intensità quale motore dell’azione sarà temporaneamente ridotta in funzione di altre esigenze collaterali e, in particolare, quella che porta alla riproduzione. Di conseguenza la sopravvivenza si presenta come un sottofondo onnipresente ma solo sporadicamente rilevabile in modo inequivocabile. E’ lecito allora parlare di finalità quando, forse, si tratta più che altro di una condizione ineludibile? Ci pare che l’operazione sia lecita nella misura con cui la sopravvivenza caratterizza in modo inequivocabile tutto il vivente nella sua evoluzione. La necessità di nutrirsi è consustanziale alla sopravvivenza. Il bisogno che caratterizza la fame è una delle funzioni dalle quali dipendono dei fini quali quelli, in concreto, che indurranno a soddisfare il bisogno. Il non soddisfare tale bisogno corrisponderebbe a rinunciare alla sopravvivenza. In questo senso sopravvivere è un fine: implica dover rispondere al bisogno affermativamente. Si tratta di una finalità che è funzione di uno stato organico ma che per necessità o per volontà lo trascende. Senza lo stato organico il fine della sopravvivenza non è comprensibile. Ma se lo stato organico è necessario esso non è sufficiente. La consustanzialità illustra come l’uno sia irrevocabilmente legato all’altro ma con modalità che possono differire significativamente in funzione dell’indirizzo che prende il vivente: il bisogno energetico basso della pianta e correlato alla sua immobilità permette dei tempi di sopravvivenza a volte lunghissimi senza che il bisogno abbia una particolare intensità. Lo stesso dicasi per tutti gli organismi a basso metabolismo rispetto a quelli ad alto metabolismo. Una ragione della mobilità è l’urgenza che impone la soddisfazione del bisogno. E, dal momento che i circuiti neuronali accrescono a dismisura le esigenze energetiche ritroviamo allora che il movimento filogenetico verso la complessità neuronale condiziona pure il significato da dare alla sopravvivenza stessa per l’urgenza con la quale pone il problema del soddisfacimento del bisogno organico. Ergo: se la sopravvivenza è un fine orientativo di tutti i comportamenti del vivente questa non avrà la stessa rilevanza in termini soggettivi per le varie specie. Questa distinzione porta in se un altro correlato: più complesso è il sistema neurologico maggiore sarà l’esigenza energetica e maggiore sarà la sensibilità al problema della sopravvivenza. Il culmine essendo la cognitività da parte di Sapiens dell’esigenza in questione.

Si ripropone, allora, il quesito sulla facoltà dell’osservatore umano di interpretare in termini di finalità comportamenti del vivente a basso metabolismo con una percezione ridotta a livello cognitivo della finalità di sopravvivere. Cosa ci permette di lavorare con tale assunto quando la ri-flessione nel soggetto esaminato è totalmente assente e quando i sistemi di ricezione sensoriale si differenziano come avevamo precisato precedentemente? La risposta ci arriva spontaneamente: la presenza di un sistema neuronale anche primitivo come quello gangliare significa dover discriminare ad ogni istante le sotto-finalità derivanti da quella della sopravvivenza. Questo perenne agire (o non agire) ci permette di usare il concetto di finalità anche quando non viè sapere di sapere dal momento che un continuo processo decisionale rivela la natura finalistica dal punto di vista del soggetto anche se oggettivamente potremmo anche definirla condizione ineludibile. Per contro l’assenza di un per quanto minimo sistema neuronale ci porta ad escludere la finalità per limitarci al concetto di “condizione”.

Sperimentazioni a questo riguardo citati da Joelle Proust (“Comment le sens vient aux betes”) ed effettuati da Gallistel, Neuringer e Harper ci dicono che animali quali piccioni o anatre selvagge sottoposti a situazioni sperimentali non apprendono ciecamente in funzione di una ripetitività del loro stesso comportamento ma che sono portati a osservare e valutare “calcolando il prodotto della dimensione dei pezzi di cibo offerti per il numero di pezzi ottenuti per unità di tempo”. Il processo di auto orientamento si rivela, quindi, molto più complesso di quel che poteva essere immaginato sulla base delle teorie behavioriste. Citando Gallistel la Proust segnala che “la relazione fra ciò che è appreso e ciò che l’animale fa è assai complessa. La teoria deve ancora essere elaborata”. Non troviamo allora dei nessi causali necessari tra il contesto in cui l’informazione è appresa e quello in cui è utilizzata (J. Proust). Le indicazioni che ci provengono da queste analisi ci dicono che se, d’una parte, non posso immedesimarmi in uno scoiattolo in quanto non ho la facoltà di esaminare tutti i suoi percepiti per i differenziali di struttura neurologica e anatomica, posso, ciò nonostante, mimeticamente ridurre lo scarto che vi è tra l’osservatore e l’osservato. Quest’ultimo, infatti, è dotato di una proto-cognitività (J.Proust) per cui riceve in maniera intensiva la percezione sensoriale ma anche in modo discorsivo la percezione cognitiva. “Esiste dunque un criterio di oggettività nella cognizione animale: è la capacità di integrare e rettificare l’informazione spaziale primordiale”. Siamo quindi in grado di capire a che cosa l’animale è sensibile e quale sarà il differenziale di sensazione a stimoli differenziati. Non potremo valutare con precisione il suo sentire ma potremo capire come si riflette il suo sentire nelle scelte che fa. Ed è su queste basi – di una protocognitività – che possiamo procedere a esaminare il divenire filogenetico anche se riguarda specie e strutture anatomico-fisiologiche lontane da noi. Tutto ci riconduce ad affermare che vi è una gradualità del sapere (senza sapere di sapere) che ci lascia aperte le porte all’interpretazione della selettività comportamentale senza necessariamente riuscire ad afferrare l’intima qualità del percepito (e ciò tanto più distante da noi sarà la struttura anatomico-fisiologica considerata).

Il legame fondamentale tra noi osservatori e i multicellulari ha come base l’ineludibile concetto di finalità. Per quanto la maggioranza dei biologi evoluzionisti neo-darwiniani si sforzi di ridurre il finalismo a una mera causalità meccanicistica la finalità continua a emergere quale conseguenza di quella ultima della sopravvivenza. E ciò tanto più quanto il fenotipo s’impone al genotipo grazie alla sua complessità e alla lunghezza della catena fini- mezzi che irrompe e trasforma la relazione. In tema di linguaggio la sintassi universale di Chomsky anche se non necessariamente frutto di un’esigenza legata alla comunicazione non trova una sua comprensibilità se non in termini finalistici solo che essi sono di natura filogenetica e incomprensibili se trattati solamente a livello individuale poiché questo se li ritrova innati.

Alla fine dell’800 la moglie del vescovo di Worcester esclamò: “Siamo discendenti dalle scimmie? Speriamo che non sia vero ma se lo fosse speriamo che non si dica in giro”. Oggi, per fortuna, non è più così ma la discontinuità comportamentale continua a sollecitare ipotesi di cause trascendenti sotto forma di un “nesso mancante” dal punto di vista paleontologico o, al contrario, di una inevitabilità dell’avvento dell’uomo grazie ad un superiore disegno intelligente ove, sovente, il secondo si appoggia al primo.

Le differenze nel genoma, sappiamo, si riducono a quell’1.2 % mentre quelle anatomiche si collegano al bipedismo e alla diversa dimensione craniale. Le differenze fisiologiche attengono essenzialmente alla diversa struttura nelle modalità sessuali con implicazioni ormonali. Ma ciò che rappresenta da sempre la differenza più rilevante è la complessità e il volume del telencefalo.

Se esaminiamo gli effetti comportamentali delle sovracitate differenze queste si possono riassumere nella facoltà di astrazione con la correlata capacità di realizzare dei sistemi fini-mezzi notevolmente allungati e che si esprimono in una grande varietà (rispetto a un Simiens) di coordinamenti motori (anche se alcune facoltà rispetto agli arboricoli si sono perse). La facoltà di astrazione ha portato con sé un rapporto sociale basato sul linguaggio e la simbologia delle strutture quantitative fino alla ricostruzione di un mondo digitale (ricostruzione nel senso che abbiamo dato al DNA in quanto tale già alle origini della vita). Questa facoltà di astrazione (una parola è un’astrazione quando definisce una cosa: nessuna parola descrive integralmente “quella” cosa; 3 alberi non esistono: sono un insieme ove si è dissociata la struttura “di quell’albero” per valorizzare ciò che gli alberi hanno in comune rispetto ad altre forme) riposa essenzialmente sullo sviluppo che ha avuto il telencefalo e il sistema nervoso in generale come abbiamo già esaminato in precedenza. Nell’ambito del telencefalo il ruolo dell’ippocampo per quanto riguarda la memoria e l’apprendimento è fondamentale.

Ma, al di là delle differenze legate a ciò che chiamiamo intelligenza razionale, troviamo due aspetti che ci distinguono in modo peculiare dai nostri parenti i Simiens. Si tratta dell’espressione del pianto e del riso. Queste due manifestazioni non sono esclusivamente correlabili con la sola dimensione del telencefalo ma coinvolgono il sistema limbico e, in particolare, l’amigdala. Ambedue esprimono una connotazione specie-specifica nel senso dell’interrelazione tra telencefalo, il sistema limbico legato alle emozioni e, infine, al tronco encefalico gestore della reazione più fondamentali quali la fame/sete, paura, aggressività e dolore. Cercheremo in un capitolo a se stante di esaminare queste due modalità del comportamento di Sapiens perché sono probabilmente quelle che più interessano le arti e in particolare la letteratura dal che desumiamo che, in realtà, sono quelle alle quali la maggioranza delle popolazioni sono interessate. Sono quelle del vissuto individuale, dell’intimità e, anche, delle differenze intra-specifiche.

Se, come abbiamo visto, la complessità del cervello umano si caratterizza per l’immane reticolarità con miliardi di sinapsi e di circuiti dobbiamo anche rilevare come il loro incremento quantitativo abbia aggiunto, oltre ai benefici derivanti da un’immunità ex-ante, anche le complicazioni conseguenti a un coordinamento del tutto in quanto unità organica. Ogni contraddizione esistente tra le parti di un sistema indebolisce il sistema stesso. Una contraddizione nell’ambito del telencefalo porta a sforzi intellettuali per superarla. Se la contraddizione emerge tra un’emozione e una facoltà sensori-motoria o si potrà operare una sintesi o una delle due parti dovrà cedere il passo con, nuovamente, un relativo indebolimento del tutto (pensiamo alla problematica che può affliggere un atleta quando il controllo sensori-motorio non è più sostenuto dal rifornimento energetico oppure quando la reazione emotiva risulta in un abbandono della fiducia in se stesso). Il coordinamento tra le parti è un’operazione che vista dall’esterno appare ciclopica.

Significative, d’altra parte, sono quelle sperimentazioni effettuate su studenti ove si è cercato prima di identificarne la generale propensione all’ansietà per poi sottoporli a due prove di ricognizione di varie espressioni di volti presentati in video. La prima prova consisteva nel passare in rassegna rapidamente i vari volti con espressioni diverse per esprimere in prima battuta come si poteva definire i vari volti scrutinati. La seconda prova ripeteva la prima ma dando un adeguato tempo di riflessione prima di dover caratterizzare le espressioni stesse. I risultati furono che alla prima prova – quella della rassegna veloce – le valutazioni delle varie espressioni variavano significativamente tra coloro che si era appurato avessero una chiara predisposizione all’ansia rispetto a coloro che tale predisposizione non avevano. Nella seconda prova (quella dove era stata concessa una pausa di riflessione) tali differenze registrate nella prima si attenuavano fornendo delle valutazioni complessivamente omogenee. L’attivazione della corteccia cerebrale permetteva una ri-flessione che accomunava i partecipanti. Ricordiamo come si è potuto verificare sperimentalmente che tra la decisione di agire e la messa in esecuzione passano circa 550 nanosecondi. La decisione di agire si esplica con una scarica elettrica che parte dalla corteccia dorso-laterale-prefrontale.

In un recente articolo a firma di Mayberg, Brannen, Liotti et al. si riportano i risultati di una ricerca sperimentale sull’interazione fra corteccia e sistema limbico nei mutamenti di umore. Il risultato, essenzialmente, rivela un rapporto inversamente proporzionale nell’attivazione del sistema limbico rispetto a quello della corteccia (registrazioni ottenute con PET e RMN). Maggiore è l’attività nell’uno e minore è nell’altro. Anche qui l’osservazione si inserisce nell’ambito di una constatazione confermabile dal buon senso. Non abbiamo sempre saputo che uno sforzo intellettuale non può riuscire in un forte stato di perturbazione emotiva e viceversa: l’espressione emotiva non può dispiegarsi se non in assenza di un’intensa attività intellettuale? Alcune ricerche effettuate da Allman e Bush propongono un ruolo particolare alle ramificazioni neuronali del cingolo anteriore: zona adiacente la corteccia cerebrale e che riunirebbe le facoltà cognitive con quelle di controllo emotivo. L’emersione di questa zona da un punto di vista ontogenetico è successiva alla nascita. La constatazione di questo ritardo nello sviluppo ontogenetico fa pensare alla possibilità di una posteriorità anche da un punto di vista filogenetico (secondo il principio di un’approssimativa concordanza fra sviluppo filogenetico e ontogenetico). Infatti, con lo sviluppo del cingolo anteriore abbiamo anche lo sviluppo del controllo emotivo. Il ritardo nello sviluppo di questa sezione cerebrale spiegherebbe la maggiore propensione al riso nell’infanzia per il minor controllo esercitabile.

Non viene il sospetto, allora, che quell’impressione di maggiore serenità espressa dai nostri prossimi parenti Simiens non sia, appunto, il frutto della minore contraddizione grazie al più ridotto telencefalo? Che, forse, il prezzo dell’intelligenza non è solo costituito dal maggior bisogno energetico della cellula neuronale ma anche dallo sconquasso che un sistema così fortemente allargato e compartimentalizzato comprende?

Abbiamo passato in rassegna sinteticamente le differenze che ci distinguono dai nostri più prossimi cugini. Cosa ne è delle similitudini? Quanto nei nostri comportamenti è riconducibile a strutture pregresse? L’accumulo della memoria transgenerazionale di cui abbiamo già parlato cosa ci ha lasciato costituendo un inconscio vincolo nel nostro operare e quanto invece è una “produzione sui generis” di Sapiens? Queste domande sono da tempo uno dei principali temi di dibattito in campo evoluzionistico (e non). Non saremo certo noi in grado di risolverle ma la sollecitazione intellettuale è troppo grande per poter resistere alla tentazione.

Ad esempio, abbiamo già notato come l’incesto sia un tabù non-riflessivo basato sull’incompatibilità dovuta alla prossimità (e non già sulla presunta consanguineità). Mitologia prima e religione poi hanno trasformato un’ovvietà per tutto il vivente multicellulare in un comportamento dettato da vari dogmi. Ciò che non avveniva naturalmente si è problematizzato costituendosi attorno una valenza morale, legata, appunto, ai dogmi religiosi. L’astrazione generalizzante ha reso problematico ciò che problematico non era. (in termini filogenetici).

Tornando a considerazioni meno speculative e volgendo lo sguardo al fenomeno religioso esso è palesemente assente in quanto tale dall’esperienza di un bonobo. Ma quanto la limitazione di assenza di linguaggio è il fondamento dell’assenza di una “religione” e quanto, di fatto, i precetti religiosi che si riferiscono ai rapporti intra-specifici non attingono a ciò che i nostri predecessori (paleontologici) già praticavano? Abbiamo già visto l’universalità dell’incesto che, storicamente, abbiamo ripreso pari pari (fino alle condanne a morte nei casi in cui tale pratica è divenuta pubblica). I rapporti propugnati dal Buddismo non si rifanno a un’immobilità caratteristica delle piante? L’eliminazione delle pulsioni del sistema limbico e di quelle sessuali a favore di una contemplazione e di un’ascesi non è una via che la vita ha già intrapreso da tempo immemorabile? (Peculiarmente in Giappone il Buddismo si trasformò in una serie di precetti aggressivi!) Se ci rifacciamo a Kung Tse (Confucio) e al suo precetto “Le leggi, i principi, i sistemi e i processi ai quali ci si riferisce sono, nel loro insieme, l’esperienza generale della legge della natura”: qual è questa legge se non quella che informa transgenerazionalmente gli acquisiti filogenetici? Guardare la natura significa guardare agli animali per trarre da loro quella saggezza che, per Confucio, troppi umani non rispettano. Se esaminiamo la cultura ebraica dalla quale sorge il cristianesimo troviamo un precetto ben noto ai nostri antenati “occhio per occhio, dente per dente, vita per vita”. I dieci comandamenti possono, senza eccessiva difficoltà, essere assimilati all’implicito comportamento di un capo branco rispetto alla sua comunità. Il Dio ebraico dice, fra l’altro, di se “sono un Dio geloso”. Non lo è di fatto il capo branco?

Tra le differenze significative frutto dell’esplosione dell’astrazione atemporale troviamo, ovviamente, le costruzioni di deità fino al monoteismo. Ma anche nelle deità si ripresentano formule di organizzazione sociale quale quella che abbiamo già esaminato con gli insetti. Dei guerrieri, Dei della fertilità, Dei della sessualità, Dei della morte. Tanti Dei a rappresentare funzioni tipiche di una comunità dove la differenziazione è frutto della maggiore specializzazione delle funzioni in Sapiens.

E’ il dio monoteista che, per il sommo grado di astrazione, non può trovare riferimento in una qualsivoglia specie che non sia Sapiens. Alla stessa stregua vi sono precetti comportamentali che, sempre in seguito all’accresciuta facoltà di astrazione, non possono trovare le loro origini se non in Sapiens stesso. Il “porgi l’altra guancia” non può essere recepito da un Simiens anche se il concetto stesso, in qualche modo, riflette l’anticipazione dell’animale inferiore che si mette in posizione di palese sottomissione. D’altra parte la radice stessa di “religione” significa sottomissione. Nel nostro caso, per esempio, sottomissione a un ente astratto anziché a un potere immanente espresso da una forza superiore coercizzante. La ri-flessione resa possibile grazie alla facoltà del telencefalo pone le basi per un tentativo di risposta ai molteplici aspetti del vivente e in particolare della morte per cercare una risposta nella sottomissione a quell’ente che possa provvedere alla sopravvivenza di fronte alle carenze dei sistemi immunitari sia ex-post che ex-ante.

Il problema relativo all’emergenza dall’astrazione generalizzante del concetto di finalità può forse essere colto al meglio esaminando una specifica idea che, da tempo immemorabile, leghiamo alla riflessione cognitiva. Ci riferiamo alla “LIBERTA”. Se vi è qualcosa normalmente legato esclusivamente a Sapiens questo è ben il concetto di libertà. Le definizioni in materia si sprecano e non vediamo l’utilità operativa di cimentarci su questa strada. Tuttavia ci pare innegabile che essa comprenda d’una parte una questione di scelte e d’altra parte una questione di volontà. Proviamo a testare la libertà in termini filogenetici e chiediamoci come si presenta, da questo punto di vista, la sua NEGAZIONE. Scopriamo che la caratterizzazione attuale dicendo che tale libertà è impedita è quella della prigionia che, a sua volta, risponde al criterio di impedimento al moto. L’uomo privo di totale libertà è quello bloccato nella sua facoltà di muoversi. Trasferiamo lo stesso approccio a un qualunque nostro antenato che sia mammifero, rettile, pesce o battere. Il suo imbrigliamento fisico ovvero la sua impossibilità di muoversi provocano una reazione poco dissimile da quella di “Sapiens”: quest’ultimo potrà darsene una ragione (grazie, appunto, alla ragione) ma il processo limitativo al movimento fisico sarà una “pena”. Uno stato doloroso. Lo stesso dicasi per i nostri antenati o, se per questo, di tutti i nostri contemporanei non-Sapiens. Faranno di tutto per evadere da quello stato di impotenza motoria. La via di uscita del battere sarà quella di tentare la strada a lui nota: quella della replicazione. La sua ricerca di libertà si ricongiunge con quella primordiale alle origini della vita stessa.

E, allora, quell’indomita volontà di recuperare la facoltà di movimento non è essa espressione della “volontà” più generale di poter sopravvivere dal momento che è nel movimento che ritroviamo la chiave dell’originaria autoregolazione suscettibile di miglior adattamento ambientale e, quindi, di maggiori opportunità di sopravvivenza? Non possiamo avvertire la similitudine fra la volontà delle diverse specie al di là della differenza di presa di coscienza di “Sapiens”? (E’ facile sperimentare l’impatto che la negazione della libertà di movimento ha su di un qualunque vivente: basta inibire il moto anche di un animale addomesticato per un dato periodo di tempo per rendersene conto).

Che ne è dell’aspetto “scelte”? Evidentemente è un aspetto condizionato da quello esaminato in precedenza: se non vi è facoltà di movimento vi è poco da scegliere. Ma anche da questo punto di vista la differenza fra le specie ci appare più nel senso di un allargamento delle possibili opzioni disponibili che non nel suo meccanismo fondamentale. La scelta del pesce libero sarà limitata nelle sue opzioni rispetto a “Sapiens” ma anche lui farà le sue avventandosi su di un mollusco piuttosto che non riposare per riaccumulare energie. La differenza appare sempre più una questione di gradazione che non di drammatica transizione di fase. La scelta dell’unicellulare apparirà ancora più restrittiva ma anche lui potrà cercare il sostentamento in una cellula piuttosto che in un’altra. I gradi di libertà sono diversi ma, appunto, si tratta di gradi.

Proviamo a riesaminare la questione della discriminante tra una”intelligenza” di una formica, quella di un Sapiens ricercatore e quella di Picasso.

L’esempio delle formiche che raccolgono del fogliame in un dato sito per favorire la crescita di tuberi per loro appetibili può apparire come un gigantesco sistema di movimenti coordinati meccanicisticamente. Ma l’organizzazione di un Sapiens ai tempi di Sparta apparirà molto diverso? Esaminando i singoli comportamenti e tralasciando le diverse conformazioni anatomiche ritroviamo un analogo procedere nel senso di un più stretto coordinamento al fine di raggiungere una migliore produttività e quindi di un più efficiente metodo nell’ utilizzo dei mezzi a disposizione per raggiungere l’obiettivo del sostentamento e della difesa. Ma si dirà che lo Spartano sa quello che fa individualmente mentre la formica no. Lo Spartano potrà mutare il suo procedimento mentre la formica sarà condannata a ripetere ciecamente ciò che è stato l’imprinting filogenetico. Se i tempi di trasformazione dell’ordinamento esistente sono potenzialmente assai brevi per l’abitante di Sparta quelli delle formiche richiederanno temporalità secolari se non geologiche.

Tuttavia se l’ordinamento di Sapiens, in termini collettivi, ha avuto un inizio in tempi secolari anche quello delle formiche ha pure avuto un suo inizio. Ambedue questi inizi si sono realizzati con un apprendimento di come certe strutture fossero più funzionali all’obiettivo da raggiungere. Si sosterrà che gli uomini hanno operato “una scelta cosciente” mentre le formiche si sono man mano organizzate in base ad una serie di contingenze casualistiche. Ma in ambedue i casi vi è stato un apprendimento per “trial and error”. Gli adattamenti successivi sono rilevabili dalle modifiche che con il passare del tempo (breve per i primi) hanno mutato le originali strutture embrionali con tempi più lunghi per i secondi. E se le formiche hanno realizzato un’organizzazione di cui tutto possiamo dire salvo che non presenti caratteri di funzionalità operativa e queste non sono potute emergere se non per un processo di apprendimento epigenetico durante l’ontogenesi, cosa ci permette di asserire il contrario per quanto riguarda lo Spartano? La differenza si esplica nella complessità organico-neuronale con il corollario di un sistema neuronale che accelera i tempi del cambiamento ma non inficia la grandiosità dell’operazione di trasformazione collettiva dell’insetto in questione. Il più rudimentale cervello della formica si è adoperato nel tempo suo come il più veloce cervello di Sapiens ha fatto nelle sue diverse temporalità. In ambedue i casi si è proceduto a un’auto-limitazione della libertà individuale. Quello che ci pare costituire il fossato incolmabile tra le due specie è quindi costituito dalla diversa durata di quella forma collettiva. Ma questa è, appunto, la diversità temporale del condizionamento genomico che opera nei tempi lunghi lì dove esso costituisce ancora la dominante sugli elaborati di un sistema neuronale più complesso mentre in Sapiens la relativa rilevanza di quest’ultimo permette le modifiche in tempi che noi oggi chiamiamo storici. Se, tuttavia, come ipotizziamo, il genoma è un cervello rallentato e il cervello un genoma accelerato ci rendiamo conto di una continuità di cui non riusciamo a vederne la congruità a causa, appunto, delle differenze operative di natura temporale. Di fatto, invece, ritroviamo costantemente dei parallelismi operativi tra le varie specie compresa la nostra che ci inducono a rivedere la troppo restrittiva analogia Haeckeliana per apprezzarne le implicazioni quando la si esamina in un quadro temporale più ampio. In tale quadro le similitudini nell’affrontare i condizionamenti dei due fattori imprescindibili – la riproduzione e il sostentamento termodinamico con il loro corollario della sopravvivenza – sono sorprendenti quanto sorprendente è la lenta trasformazione dell’impatto genomico rispetto a quello neuronale con le conseguenti accelerazioni innovative.

Quando ci soffermiamo a esaminare l’operato di un ricercatore scientifico la parola “talento” viene utilizzata raramente. Parliamo più facilmente di intelligenza in una commistione di facoltà induttive ma ancor più di facoltà deduttive. Se ci riferiamo, ad esempio, a un Picasso emergerà spontaneamente la qualifica di “talentuoso”. Così avviene praticamente per tutti coloro che eccellono in un’arte ovvero una particolare abilità nel “fare”. E ciò si estende poi anche a un abile artigiano, un eccellente atleta, uno spericolato pilota fino alla ricamatrice i cui manufatti si distinguono dalla media. Anche il chirurgo sovente è considerato uomo di talento piuttosto che non un operatore dalle particolari capacità induttive e/o deduttive (superfluo precisare che le frontiere del talento e dell’intelligenza non hanno la caratteristica di non poter essere sovrapposti l’uno all’altro). Il filosofo sarà più vicino alla categoria dell’intelligenza che non a quella del talento che useremo senza imbarazzo per un abile calciatore. Anche per lo scrittore, che sia un poeta o un drammaturgo, ci verrà spontaneo parlare di talento.

Dal punto di vista di un neurologo il “talento” si rivolge con maggior enfasi agli elementi del cervello che regolano “l’output” ovvero il coordinamento spaziale prima e muscolare poi. Nel caso dell’intelligenza predominano gli aspetti dell’“input” e delle rielaborazioni dei circuiti della corteccia frontale e prefrontale. Essendo naturalmente i singoli circuiti tutti interconnessi tra di loro si usano i termini di intelligenza e talento senza andar troppo per il sottile essendo per uno scrittore, ad esempio, di estrema rilevanza l’amigdala per la percezione delle emozioni mentre per l’oratore l’area detta di Broca (quella nella quale si elabora il linguaggio nell’emisfero sinistro) svolgerà un ruolo determinante o, infine, per l’atleta conterà il ruolo del cervelletto che coordina i movimenti muscolari e che negli uccelli è particolarmente sviluppato rispetto alla totalità del cervello date le loro esigenze di superiore mobilità.

Per meglio comprendere questi due concetti un po’ di analisi semantica nella loro concreta applicazione ci potrà essere di aiuto: ad esempio, non ci sogneremmo un secondo di voler usare il termine “talentuoso” per un orango che tuttavia riesce a effettuare trasferimenti da un albero all’altro con un virtuosismo senza pari mentre un’analoga operazione realizzata in un circo da un uomo ci porterebbe a esclamare “che talento”! Naturalmente nessuno penserebbe di parlare di “intelligenza” per nessuno dei due operatori. Cosa distingue l’operato dell’uomo rispetto a quello dell’orango? Innanzitutto per l’uomo quella prestazione si trova essere al di sopra della norma dal punto di vista atletico. Nel caso dell’orango ci diciamo, meravigliati, che tutta la specie è atta a esercitarsi in quei volteggi. Per l’uomo si tratta di una”eccezione”, per l’orango di una “norma”. Il talento esprime un’eccezionalità rispetto alla norma della specie. Se estendiamo tale operazione a un raffronto tra un orango particolarmente addestrato in un circo e lo paragoniamo all’uomo ne emerge che l’eccezionalità è una condizione ma non è sufficiente. Non diremo che l’orango da circo è un talento mentre continueremo a dirlo per l’uomo. E l’intenzionalità dell’uomo nel raggiungere una prestazione fuori norma che verrà qualificata di talento mentre per l’orango intravvediamo l’opera dell’addestratore e non lo sforzo dell’animale. Quindi la particolare abilità nel fare una data cosa deve essere accompagnata dall’intenzione e dall’impegno nel portare alla realizzazione concreta. O, in altre parole, l’animale non sa di sapere mentre l’uomo lo sa e da lì parte la sequenza che va dalla presunta abilità innata, attraverso la presa di coscienza di tale abilità fino allo sforzo per perfezionare l’abilità e raggiungere il carattere di “eccezione”. E nel sapere di sapere e nella volontà di esprimere quel sapere che ci induce a parlare di talento. Nella prestazione in quanto tale, tuttavia, la chiave differenziante è la temporalità con la quale la specie orango ha raggiunto quell’abilità caratteristica e la difficoltà che ha nel modificarla in tempi brevi cosa che, invece, il trapezista umano può realizzare in pochi anni e che ha effettivamente raggiunto in poco tempo. Anche le realizzazioni dei babilonesi o degli egizi ci fanno pensare a talenti rispetto alla norma di allora mentre la complessa realizzazione di un termitaio difficilmente verrà collegata a un talento. Ma sia per quanto riguarda il talento dell’orango che per quanto riguarda il termitaio non possiamo non considerare che anche queste realizzazioni hanno avuto un inizio e che quell’inizio si differenzia da quello del trapezista o della realizzazione babilonese/egizia solo per la maggiore temporalità nell’esecuzione. Se, quindi, ci mettiamo in un’ottica paleontologica dovremmo considerare la “performance” dell’orango e delle termiti alla stregua di un’eccezione innovativa sulla falsariga di quella di un Sapiens. Il differenziale è quindi legato all’accelerazione neuronale che si riflette, appunto, nella diversa temporalità genomica rispetto a quella del sistema nervoso.

Che ne è della parte legata all’”input” ovvero della percezione e della sua rielaborazione a livello del telencefalo che definiamo grossolanamente “intelligenza”? Peculiarmente questa si adatta più facilmente a espressioni comportamentali in particolare per quanto riguarda alcune specie di insetti ma anche per comportamenti individuali che denotano astuzia nel rapporto con l’ambiente.

Come ci racconta Joseph Rahwn, un Neuropsicologo, in “Brain Evolution” le cellule neuronali eucariotiche avevano richiesto l’intervento di microtubuli che si sono associati qualche miliardo di anni orsono con i mitocondri (ovvero batteri che avevano la facoltà di utilizzare l’ossigeno che nel frattempo si era formato) per costituire l’abbozzo dei neuroni. Questi microtubuli hanno portato la cellula eucariota a usufruire di questi mezzi di trasporto e trasmissione e costituiscono ancora oggi circa il 10 % delle proteine del cervello. L’associazione delle cellule con i microtubuli è stata, quindi, un momento primordiale nella costituzione neuronale e, in particolare, per la funzione che svolgono nella comunicazione tra assoni e dendriti permettendo la trasmissione grazie a sostanze chimiche dette neurotrasmettitori. L’origine di tali microtubuli resta per il momento un enigma. E’ possibile che essi fossero pure all’origine della sessualità legata alla multicellularità come abbiamo visto in precedenza. E solo circa l.3 mia di anni orsono che si sono formati quei neuroni dell’apparato sensori motorio che hanno permesso un netto miglioramento dell’interazione con l’ambiente grazie al loro posizionamento all’esterno del corpo e quindi utilizzando la facoltà di trasmissione non solo all’interno dello stesso ma anche con l’esterno. Si erano così formati i primi circuiti nervosi legati all’”input” ovvero alla ricezione dell’informazione e alla successiva trasformazione in senso motorio. Il tutto portò infine all’esplosione del già citato Cambriano (meno 600 mio di anni) che presenta in forma rudimentali tutti i fila oggi esistenti ed anche alcuni oramai scomparsi. E’ in quel periodo che il sistema nervoso ha permesso il coordinamento di esseri multicellulari che non avrebbero potuto evolvere se non con sistemi di comunicazione assai sofisticati data, appunto, la multicellularità. L’organizzazione dei sistemi neuronali si è poi cristallizzata in quello che poi sarà il tronco midollare attuale che unifica le operazioni di raccolta primitiva delle informazioni interne ed esterne chiamate notocorda. Da elementi sparsi attorno al corpo questi neuroni si concentrarono all’interno in un processo unificatore (questo processo di unificazione in “centraline” essendo poi lo stesso che, nell’ulteriore sviluppo neuronale, ha finalmente prodotto la centralina detta cervello). Presso gli insetti, aracnidi, granchi queste notocorde si ritrovano a livello della pancia mentre i vertebrati hanno semplicemente rovesciato la postura trasformando la parte inferiore in parte superiore e, quindi, con la colonna vertebrale sulla schiena. E’ sui 500 milioni di anni fa che l’originaria notocorda si è progressivamente allungata verso i centri di ricezioni olfattivi prima e uditivi- visivi poi formando il tronco encefalico e abbozzi del sistema limbico e delle parti superiori del cervello. Si era realizzata l’esplosione cognitiva. Se all’origine i sistemi neuronali primitivi si coagulavano attorno agli orifizi che permettevano l’assunzione di cibo, con lo sviluppo dell’olfatto e soprattutto della visione, i circuiti si spostarono verso i più sofisticati centri dell’informazione ovvero verso la testa riducendo così la lunghezza delle comunicazioni tra ricezione e risposta sensori-motoria. La differenza fondamentale sta che già con i processi di input olfattivi si era compiuto un gigantesco balzo in avanti dal momento che si era passati dal tatto che non permette una rielaborazione dell’informazione per carenza di intervallo tra ricezione ed elaborazione, con l’olfatto, il sistema visivo e auricolare le informazioni davano spazio sia alla memorizzazione (la conditio sine qua non essendo l’esistenza della distanza temporale tra “input” e “output”) alla rielaborazione delle alternative del corso dell’azione successiva. Per questo processo di compattazione e complessificazione il tronco encefalico era insufficiente e ulteriori specializzazioni s’imponevano quali l’affinamento della memoria nell’ippocampo e nell’amigdala con la relativa reazione emozionale quale segnale istantaneo per mettere in allerta tutto il sistema muscolare e focalizzarlo sulle possibili implicazioni che l’informazione in arrivo poteva comprendere. In seguito alla ritmicità del susseguirsi di periodi di forte luminosità con il buio notturno, la ciclicità delle stagioni con le variazioni di temperatura si era formato anche un centro che tenesse conto di tali mutazioni regolari e questo si concentrò in prossimità dei centri visivi con la formazione di un circuito detto talamo e poi ipotalamo. Con questo strumento e utilizzando neurotrasmettitori quali a.e. serotonina, dopamina e altri il sistema si organizzava adattandolo, appunto, alle regolazioni ambientali. Per quanto riguarda l’appendice del cervelletto questa si ampliò in estensione dal tronco encefalico e pur essendo già presente nei pesci divenne viepiù voluminosa con il passaggio ai mammiferi dove non si può non intravvedere la correlazione con la maggiore articolazione dei movimenti di questi ultimi e, quindi, la necessità di uno strumento più raffinato per far fronte a tale necessità. Il gruppo di pesci definiti celacanti (che ritroviamo ancora oggi in pochi specimen sopravissuti) dimostrano che le loro pinne sono dotate da parti muscolari che inducono a presupporre che circa 400 milioni di anni fa essi divennero i primi operatori anfibi con le relative necessità di sviluppare dei polmoni atti al rifornimento di ossigeno fuori dall’acqua. Da lì la necessità di controllare la respirazione cosa che avvenne tramite una specializzazione nell’ambito del tronco encefalico. Il carattere terrestre implicò ulteriori affinamenti nella costruzione dei circuiti neuronali. I sistemi uditivi, di nulla utilità in ambiente acquatico, divennero importanti quali ulteriori sistemi informativi a distanza. L’emergenza di un sistema auricolare in cui il fluido acquoso gioca tuttora un ruolo fondamentale (denotando l’origine acquatica delle specie) si era imposto. Quando la postura terrestre si fu affermata le piccole ossa della sede auditiva dei pesci si trasformarono a livello mandibolare in quello che poi caratterizzerà l’orecchio dei rettili prima e dei mammiferi poi. Uno sviluppo analogo si produsse con la presenza di odori legati all’ambiente aereo legato all’emersione dall’ambiente acqueo. Una nuova fonte di informazione iniziò a svilupparsi sommandosi a un circuito legato all’olfatto. Inoltre questo nuovo canale permise un’identificazione dei singoli odori diventando un’ulteriore discriminante sia per le specie che per gli individui di una stessa specie. Contemporaneamente, tramite i feromoni (composti chimici trasmissibili per via aerea), si poteva anche identificare le caratteristiche intenzionali degli individui prossimali valutandone l’atteggiamento e quindi i benefici o pericoli che potevano presentarsi. Con questo insieme di sistemi informativi era divenuto necessario avere una centrale coordinatrice che producesse una sintesi emotiva ovvero uno stato di allerta di tutto il soma. Questo portò a una differenziazione dell’amigdala con la sua specifica funzione di realizzare sintesi emotive. La controreazione fu la facoltà di esprimere i propri intenti tramite sia il linguaggio del corpo sia tramite trasformazioni feromonali. Il tutto condito con la necessaria miglioria della memorizzazione e il conseguente sviluppo dell’ippocampo.

Verso i 350 milioni di anni fa apparirono i primi rettili. Il loro primo adattamento richiedeva di superare il problema di rientrare nell’acqua per la riproduzione come era necessario per gli anfibi. Era per ovviare a questo inconveniente che si impose la necessità di produrre delle uova protette dall’ossigeno e dai raggi solari. Da lì quello che chiamiamo uova amniotiche ovvero con involucro protettivo. Nuove regolazioni si imponevano nei circuiti neuronali e, in particolare, per quanto riguarda le regolazioni legate ai nuovi processi riproduttivi e agli aumentati “input” legati all’integrazione dei vari canali informativi. In particolare, con i rettili, si ebbe un’estensione delle capacità auditive e una sempre più differenziata amigdala per rispondere emozionalmente e quindi rapidamente ai segnali provenienti dall’esterno. Il posizionamento della stessa divenne ventrale per legarsi più strettamente alla struttura tipica dei rettili. Anche il sistema olfattivo si ampliò creando quel tutt’uno che chiamiamo sistema limbico e che comprende l’amigdala (reazione emotiva), l’ipotalamo connesso in particolare con la fame e la necessità copulatoria, infine l’ippocampo per la funzione di memorizzazione. Inutile sottolineare come tali specializzazioni siano in buona parte sovrapponibili e in relazione con il tronco encefalico nonché con il tronco midollare. (Vedi le descrizioni funzionali precedenti). Inoltre le funzioni contigue hanno tra di loro dei canali di trasmissione più intensi creando così dei sottosistemi dove una parte poteva sostituirsi a un’altra anche se non totalmente. Tutto questo apparato limbico si connetteva con i vari rituali comportamentali sia nel corteggiamento che nella difesa o nell’aggressione. Buona parte di questi rituali li ritroviamo anche nei più sviluppati mammiferi che nell’uomo. Per citarne solo un paio: in caso di conflitto attualizzato dopo varie verifiche sullo stato dell’antagonista il vincente si sentirà tale quando l’oppositore si sarà abbassato o con la testa o con il corpo intero. Oppure, nel corteggiamento, la fuga della femmina che prima ha indotto uno stimolo per via feromonica al fine di eccitare il maschio sarà il preludio per la rincorsa e il successivo, a volte, accoppiamento.

Iniziò così una progressione di sviluppo del cervello verso le parti esterne e in particolare quella frontale che erano collegate al sistema limbico e alle sue facoltà interattive con l’esterno. Come per noi già nei rettili l’amputazione di queste parti sensibili alla ricezione-elaborazione con l’esterno se amputate producono stati catatonici con blocco dell’espressività emotiva. (vedi il Parkinson degli umani). Con l’emergenza del cingolo anteriore si sono affinate le facoltà espressive sonore correlabili alle grida di un neonato indicando così il nesso con lo sviluppo di un nuovo tipo di maternità. Infatti, la distruzione del cingolo anteriore annulla il senso materno e rimuove il legame madre figlio. Questo la porta anche a distruggere per noncuranza la prole dimostrando così un ritorno all’indifferenza di tipo rettiliano.

E’ nell’associazione tra amigdala e lo sviluppo del cingolo anteriore che si è evoluta l’individualizzazione con la cura della prole intesa come individui distinti e non più come un aggregato indistinto. Così si erano trasformati i rapporti di solidarietà di gruppo strettamente funzionali alla utilità della difesa e/o attacco in rapporti individuali e familiari di lunga durata. Questo richiedeva quindi anche il rafforzamento dei legami tra l’informazione visiva, la memorizzazione, l’amigdala e il sistema del cingolo posteriore. La memorizzazione ubicata nell’ippocampo acquisiva una sempre maggiore presenza e dimensione per poter accogliere quelle che ormai erano delle intricate relazioni tra ricezione, reazione emotiva, discriminante individuale e operazioni di scelte operative assai sofisticate nell’affrontare i problemi sorgenti dall’ambiente. Si era così formata la corteccia cerebrale temporale e occipitale che ha poi guidato tutto lo sviluppo dell’”intelligenza” nei mammiferi e successivamente nei primati. Lentamente la ricezione olfattiva cedette il posto e la preeminenza a quella visiva e auditiva. E’ con la sparizione dei dinosauri che i protomammiferi prima e mammiferi poi che la neocorteccia cerebrale iniziò ad assumere quel ruolo di coordinatore “universale” che ha caratterizzato tutta l’evoluzione ulteriore. Questa è avvenuta tramite una sempre più articolata distinzione di sottocategorie con la loro specifica funzionalità. In essenza è nello sviluppo dell’amigdala prima e della corteccia poi che si è creato quell’insieme che ha, per esempio, realizzato quell’area di Broca che si identifica con la ricezione e capacità legate al linguaggio. Questi vari processi di espansione delle funzioni, della necessità di rafforzare i loro legami appaiono già a livello dello sviluppo embrionale. Senza entrare nei minuti dettagli della costruzione complessa della corteccia registriamo semplicemente che i lobi frontali, temporali e parietali inferiori sono stati gli ultimi a emergere e che hanno raggiunto il loro massimo sviluppo nel cervello umano. Non va scordato come in tutta questa espansione come vi fosse la necessità di rafforzare le nuove funzioni nei loro collegamenti con le funzioni inferiori del tronco encefalico e del midollo spinale. E verso i 100 milioni di anni orsono che si ebbe l’inizio di strutture attuali tramite i mammiferi che soppiantarono i rettili prima lentamente e poi rapidamente (grazie alla catastrofe che eliminò i più grandi sauri). E verso i -70 mio di anni che i mammiferi iniziarono il loro dominio terrestre. Dominio terrestre che, tuttavia, va contestualizzato con la loro nicchia ecologica: i virus, i batteri, gli insetti operanti nelle loro nicchie hanno continuato a prosperare e, grazie alla loro capacità mutazionale a divenire problematici anche per l’uomo.

Questo excursus riassuntivo nell’evoluzione dei sistemi neuronali fino al cervello vuole rispondere, innanzitutto, al quesito sullo spostamento dal condizionamento genomico a quello neuronale. Ciò ci porta direttamente alla domanda che porta già di per se la risposta: può essere stata la progressiva evoluzione neuronale e la sua accelerazione nei tempi più recenti frutto di un casualistico processo di attivazione genomica? O le varie trasformazioni funzionali e la costante riorganizzazione dei circuiti neuronali si sono sostituiti alle espressioni delle strutture del genoma e hanno finito per essere loro i determinanti? Il genoma, nei suoi vari segmenti, non è divenuto man mano il registratore delle trasformazioni neuronali consolidando man mano i risultati topografici e funzionali di queste ultime? La costante ricerca di nuove connessioni o sinapsi non ha autogenerato il proprio accrescimento e specializzazione? Non intravvediamo un sistema di autopropulsione per autoregolazione nella necessità derivante dalle pressioni interne ed esterne? I nuovi algoritmi dei circuiti neuronali non erano il frutto della necessità di più efficiente coordinamento di quelli esistenti? Le pressioni derivanti dalle funzioni e dai loro necessari intrecci non hanno fatto insorgere quella nuova realtà anatomica chiamata circuito della corteccia cerebrale essendo questa nient’altro che il corrispettivo di un nuovo software che usa gli stessi ingredienti di un PC (neuroni/trasmettitori chimici vs. Microchips e attivazione elettrica)? Per estensione: anche una funzione come quella respiratoria una volta posta sotto controllo neuronale non ha finito per incidere sulla struttura polmonare stessa attivando quei geni correlati a quell’organo? La trasformazione di alcune parti muscolari non sono il derivato del prolungato controllo neuronale che poi ha inciso sulla trasmissibilità transgenerazionale tramite l’epigenesi? Le avventure esplorative degli assoni e dei dendriti non hanno finalmente trovato una loro canalizzazione a livello genomico per usare un termine caro a Waddington? O, in essenza, la funzione non ha finito per determinarne la struttura?

Perché, allora, se consideriamo l’operato di un’ape sia come realizzatrice di un alveare che quale organizzatrice di un sistema sociale particolarmente raffinato ci sentiamo di parlare di “intelligenza” mentre all’artigiano uomo che eccelle nel suo campo diciamo che ha del “talento”? La risposta è relativamente evidente: l’artigiano devia dalla norma relativamente ai suoi contemporanei e la sua realizzazione la possiamo osservare in tempi che ci sono familiari ovvero quelli di una o più generazioni. La conquista di eccellenza dell’ape di cui non abbiamo visto gli albori in quanto operanti su una scala temporale diversa ci porta a constatarne lo statu quo e ad affermare: tutte le api fanno la stessa cosa. Quindi è innata e nessun merito è allora evidenziabile. L’ape non è”creativa” visto che generazione dopo generazione continua a operare con le stesse modalità. Tuttavia l”intelligenza” dalle caratteristiche induttive/deduttive che nell’accezione comune non implica la creatività ci porta a constatare la funzionalità dei mezzi adoperati per raggiungere il suo fine. Come noi ma senza il carattere dell’eccezionalità. Non ci sogneremmo, infatti, di paragonarla a un Einstein. Ma non possiamo esimerci dall’osservare una similitudine con la più generale modalità di operare che ci caratterizza in quanto uomini. (La fallacia sta naturalmente nella definizione che tende a escludere la creatività dall’intelligenza induttiva/deduttiva)

Approfondendo, quindi, dobbiamo constatare come la prossimità tra un essere a bassa o nulla corteccia cerebrale sia di fatto molto maggiore con un Picasso che non con un Einstein. Innanzitutto perché si collocano ambedue sul lato dell’output neuronale/muscolare anziché sull’aspetto della ricezione o input e relativa rielaborazione dei nessi neuronali in quanto tali. Inoltre il ruolo della componente legata al tronco encefalico domina su quello della corteccia. Infine perché abbiamo un’intrinseca incapacità quali osservatori di metterci al livello delle temporalità creatrici tipiche del genoma rispetto a quelle della storicità o dei tempi brevi dei determinismi neuronali. Prossimità, naturalmente, non significa assimilazione dal momento che la corteccia cerebrale di un Picasso non è assente nel suo operare e quella uno scimpanzé non gli permette di andare oltre un’astuzia di tipo reattivo ma il vero abisso rimane quello rispetto a un ricercatore scientifico. Picasso coinvolgerà più sottosistemi che non un’ape ma il suo “talento” starà pur sempre nella massimizzazione di alcune specifiche facoltà non esclusivamente dipendenti dalla corteccia cerebrale elemento centrale per il ricercatore. La scelta dei fini e sottofini da raggiungere sarà un’operazione cosciente per Picasso mentre per l’animale sarà un’operazione senza sapere di sapere. Ma la sequenza dei mezzi da utilizzare avrà un carattere più erratico e basato sulla contingente ispirazione legata a un processo che definiamo “spontaneo” in quanto nella sua concreta esecuzione vorrà addirittura eliminare l’intervento della corteccia quale fattore di disturbo perché inibente l’atto creativo mentre il ricercatore non potrà farne a meno. L’animale che sia mammifero, pesce o insetto procederà con i suoi tempi lunghi più come Picasso che non come un ricercatore. Ciò che non possiamo/vogliamo vedere è come l’artista sia più vicino al “talento” dell’animale di quanto si possa accettare nelle definizioni semantiche correnti. (Volete una verifica? Provate a realizzare un cerchio impegnandovi a ogni tratto successivo a correggere la traiettoria. Se non realizzato “di getto” il cerchio finirà per essere un quadrato; oppure mentre firmate un documento provate a concentrarvi sul fatto stesso analizzando ciò che state facendo: la vostra firma diverrà quasi irriconoscibile in quanto l’attivazione della corteccia cerebrale avrà inibito la fluidità del sistema sensori-motorio allenato a produrre “di getto” una data forma scritta).

Figure

Struttura generale del sistema nervoso

 

 

 

 

 

Foto: intelligenza-artif.jpg

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