L’architettura cognitiva del linguaggio

La facoltà di linguaggio è ciò che permette agli esseri umani di comunicare in modo flessibile e pertinente. Dai primi decenni del ventesimo secolo ad oggi i modi di vedere il linguaggio sono cambiati radicalmente: “comportamento verbale” per la psicologia comportamentista; modulo innato e dominio specifico nella svolta cognitivista impressa da Chomsky; intenzione comunicativa e pragmatica come nucleo della comunicazione umana per Sperber e Wilson; narratività del linguaggio per Ferretti e Adornetti. La strada per riuscire a definire cos’è questa nostra facoltà di linguaggio si fa sempre più ramificata man mano che se ne svelano i panorami.

La comunicazione è, banalmente, il trasferimento di informazioni da un oggetto, sistema, o essere vivente, ad un altro.

Nell’essere umano, la comunicazione acquista un corollario di connotati che la articolano in molte categorie diverse ma spesso compenetrate: la comunicazione verbale è quel passaggio di informazioni che utilizza il canale fonatorio come mezzo di trasporto; quella non verbale invece utilizza prevalentemente canali visivi, e implica competenze cinesiche (uso del corpo a fini comunicativi), prossemiche (distanza interpersonale), socioculturali e via discorrendo.

Molti e diversi settori delle scienze cognitive e delle neuroscienze affrontano i problemi della comunicazione da differenti punti di vista, ma forse il più fertile ambito di studi è stato ed è quello relativo allo studio del linguaggio.

Cos’è il linguaggio?

Il linguaggio è quella facoltà cognitiva che permette agli esseri umani l’uso di un codice (il codice linguistico) conosciuto e condiviso. Tale codice concede una teoricamente infinita varietà di combinazioni che afferiscono a qualsiasi informazione, sia essa un’idea, una credenza, un desiderio o ancora considerazioni, propositi o memorie. La nozione di “linguaggio” si differenzia da quella di “lingua” in quanto indica la facoltà e l’architettura cognitiva che ne permette la realizzazione, laddove per lingua si intende il codice linguistico in sé, nella sua attuazione socioculturale, spaziale e storica.

Lo studio del linguaggio fu rivoluzionato dall’avvento delle scienze cognitive, o, più precisamente, da quella concezione della “mente come calcolatore” che arrivava dalla matematica computazionale, dall’ingegneria dei calcolatori e dalla nascente cibernetica, che negli anni Cinquanta ebbero un forte impatto sulla filosofia, la psicologia e le scienze umane e sociali. Prima di tale rivoluzione dominava il paradigma della psicologia comportamentista e della linguistica strutturale secondo cui il linguaggio altro non era che un “comportamento verbale”, e dunque, ciò che ne doveva essere studiato era la manifestazione. Le scienze cognitive cambiarono il paradigma spingendosi ad osservare il linguaggio dall’interno e cercando di elaborare un modello che rendesse conto dell’architettura cognitiva sottostante alla facoltà di linguaggio, tentando di spiegarne le regole e i processi. A capo di questa rivoluzione un giovane Noam Chomsky che, nel 1959, stroncò definitivamente il paradigma comportamentista pubblicando sulla rivista “Language” una recensione del libro Verbal Behavior, scritto tre anni prima dal più eminente psicologo comportamentista dell’epoca, Burrhus Skinner, demolendone gli assunti di base. Chomsky stava divenendo portabandiera della rivoluzione cognitivista nella linguistica.

Il modello di linguaggio che Chomsky formulerà negli anni a venire andava incontro alle nuove tendenze cognitiviste e computazionali, e guardava al linguaggio come una facoltà innata, altamente specifica e che funzionava attraverso i meccanismi descritti dal Modello del codice.

Modello del codice

Il Modello del codice deriva dal Modello matematico della comunicazione elaborato da Claude Shannon nel 1948 (secondo il quale i segnali sono stringhe da trasmettere lungo un canale comunicativo), e dalla cosiddetta metafora del condotto (l’idea che i segnali contengano messaggi da confezionare e spedire attraverso un canale, per essere spacchettati al loro arrivo). Secondo il modello del codice, dunque, la comunicazione coinvolge la trasmissione di informazioni attraverso un canale: l’informazione è codificata in un segnale, inviata attraverso un canale e infine decodificata dal ricevente allo stesso modo in cui un algoritmo cripta e decripta strisce di codice. Quale componente cognitiva è adibita alla codifica e decodifica del codice? Il modulo del linguaggio, la cosiddetta “Grammatica universale”.

La mente modulare

La concezione modulare della mente è una fortunata teoria elaborata da Jerry Fodor, che ha avuto un successo strepitoso nel descrivere il funzionamento dell’attività mentale. Secondo questa teoria le facoltà cognitive sarebbero organizzate in moduli: la stragrande maggioranza di questi moduli sono unità periferiche, veloci e altamente dominio-specifiche, e computano informazioni relative al loro ambito di analisi. Le funzioni cognitive complesse (come il linguaggio, il pensiero, la capacità decisionale e l’autocoscienza) sarebbero invece gestite da un modulo centrale, di lenta computazione, che filtra ed elabora a partire dalle informazioni provenienti dai moduli periferici.

La teoria modulare si dimostrò terreno fertile per la formulazione che andava costruendo Chomsky, e il linguaggio fu concepito presto come un modulo specializzato e innato, ma soprattutto bastante a spiegare tutta l’architettura cognitiva dietro alla comunicazione verbale linguistica. Il modello chomskiano della facoltà di linguaggio si imporrà fino al tramontare del secolo.

La svolta pragmatica

Tra il 1986 e il 1995 però, l’antropologo cognitivista Dan Sperber e la linguista Deirdre Wilson, sulla scia della filosofia del significato e della comunicazione di Paul Grice che evidenzia l’importanza delle massime conversazionale e la differenza tra significato dell’enunciato e significato del parlante, instillarono un nuovo principio basato sulla pragmatica, ossia l’abilità di sapere, in qualità di mittenti, quali tipi di indizi fornire per veicolare un certo significato e, in qualità di destinatari, di generare le giuste inferenze a partire dagli indizi.  Stava compiendosi la svolta pragmatica nelle scienze cognitive del linguaggio, e questa passava attraverso il Principio di Pertinenza formulato da Sperber e Wilson.

 La “Pertinenza” fu descritta dai due studiosi come la proprietà in grado di determinare quale informazione particolare, all’interno di uno scambio comunicativo, riceverà l’attenzione dell’individuo ricevente in un determinato momento. Partendo dal principio griciano di cooperazione (che formula una modulazione del contributo conversazionale rispetto alle richieste contenute nelle informazioni, sullo sfondo di un intento comune accettato e delle quattro massime conversazionali che indirizzano la conversazione: quantità, qualità relazione e modo), il principio di pertinenza andava spiegando il perché della selezione e della gerarchia degli stimoli interni ed esterni alla comunicazione, e stabiliva che la comunicazione umana tendeva a massimizzare appunto la pertinenza, ossia il rapporto tra sforzo di elaborazione ed effetto cognitivo positivo (il grado di esito positivo della comunicazione). Il nucleo saliente della comunicazione non risiedeva più nel codice, ma nell’intenzione comunicativa.

Sperber e Wilson non si limitarono a cambiare il paradigma del modello comunicativo, ma anche quello dell’architettura cognitiva sottostante alla facoltà di linguaggio. Il linguaggio non poteva essere più concettualizzato solo come un modulo specializzato nel codificare e decodificare il codice comunicativo, ma doveva essere affiancato e presieduto dalla capacità di leggere le intenzioni e le credenze altrui, vera caratteristica sulla quale si basa, a detta dei due studiosi, la comunicazione umana: questo era il modulo del Mindreading o Teoria della Mente.

Ad oggi, il modello di Sperber e Wilson è ancora il più accreditato, e la base sul quale poggiano le teorie del linguaggio odierne. Tale svolta di paradigma impone anche un grosso ripensamento all’interno dell’alveo di studi che indagano la nascita e le origini del linguaggio. Se per Chomsky questo è “esploso” in un momento non ben precisato tra i 100.000 e i 200.000 anni fa, per il modello pragmatico un protolinguaggio è rintracciabile nei gesti, nella cinesi e nella mimica, e da questi si evolve.

Oltre la svolta pragmatica

Per Ferretti, Adornetti e Marini è la pantomima la base della genesi del linguaggio, ma il Mindreading non basta a spiegare tutto. Vi sarebbero due moduli collegati alla memoria spaziale ed episodica senza i quali non è possibile pensare una facoltà di linguaggio: il Mental Time Travel e il Mental Space Travel, entro i quali si muove la capacità di proiettarsi mentalmente nello spazio e nel tempo, soprattutto in spazi e tempi che non sono quelli occupati dall’individuo nel suo presente. L’essenza del linguaggio, così come della pantomima, risiederebbe nella capacità di narrare, e per narrare non basta poter inferire le intenzioni, le credenze e i desideri altrui. Attraverso la narrazione riusciamo a creare strutture concettuali globalmente coerenti, che esprimiamo sia attraverso una coerenza globale, sia attraverso una coerenza locale, legata alla struttura logica che interconnette le parole tra loro in successione.

Conclusioni

Sono in atto molti studi al riguardo, soprattutto con campioni di bambini con disturbo dello spettro autistico, patologia nella quale è già ampiamente sperimentato e dimostrato un deficit di Teoria della Mente. Studi sulla loro capacità di viaggiare nello spazio e nel tempo stanno ora indagando correlazioni con la capacità di linguaggio, a indagare il fondamento narrativo del linguaggio. Le prospettive sono promettenti, ma lunga e ramificata è la strada da percorrere per riuscire a ricostruire l’architettura cognitiva che permette all’essere umano di comunicare nei modi in cui comunica.

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