Qual è il tuo percorso formativo e quando hai incontrato l’afasia?
[button link=”https://www.neuroscienze.net/wp-content/uploads/2013/11/presentazioneCentro-Afasia-def.pdf” color=”red” newwindow=”yes”] Presentazione Centro Afasia[/button] Mi sono laureato in Psicologia nel 1999. In seguito al tirocinio annuale e all’Esame di Stato, mi sono iscritto all’Ordine degli Psicologi. Successivamente ho iniziato la specializzazione e dopo quattro anni sono diventato uno psicoterapeuta gruppoanalista.
Nel 2000 venni a sapere che la Fondazione Carlo Molo era interessata a sviluppare un progetto attorno all’Afasia che si occupasse realmente di migliorare la qualità di vita delle persone. Il progetto che presentai venne accolto proprio perché metteva la persona al centro dell’intervento.
Pur non possedendo in origine una specifica formazione neuropsicologica – competenza che comunque ho acquisito nei primi anni di esperienza pratica sul campo – grazie alle conoscenze sviluppate dagli studi in psicoterapia, fu possibile allargare la visuale e pensare ad un progetto che concepisse il cambiamento legato all’afasia non solo in termini cognitivi ma anche in quelli psicologici, relazionali e sociali. Quello che abbiamo maturato negli anni ha sicuramente avuto molti sviluppi ed evoluzioni, si è arricchito di esperienza, credo però che l’identità profonda e la filosofia che anima il nostro intervento attuale siano coerenti con quelle idee originarie.
Per tornare alla mia storia professionale con l’afasia: quando al progetto presentato alla Fondazione Carlo Molo venne data fiducia, è iniziata una fase sia di studio più approfondito sia di esperienza pratica sul campo. Esperienza clinica svolta in due fasi diverse della malattia e quindi molto utile per poter comprendere le diverse problematiche presenti: da un lato “lavoravo” come psicologo e neuropsicologo in un reparto di urgenza (Neurologia delle Molinette) e dall’altro come psicoterapeuta nel Dipartimento di Riabilitazione dell’ASL TO1 (Servizio di Logopedia Adulti).
Questa lunga fase di studio, di formazione e di esperienza sul campo ha portato nel 2004 alla creazione del CIRP Centro Intervento in Psicologia, divenuto poi l’attuale Centro Afasia CIRP, che opera a pieno regime nel campo dell’afasia ed in sinergia con i principali Servizi di Riabilitazione del territorio torinese. E’ stato possibile negli anni, grazie all’impegno progettuale a al sostegno della Fondazione Carlo Molo, sperimentare e sviluppare diversi interventi che di fatto, oltre che perseguire la mission originaria di migliorare la qualità di vita della persona afasica e dei famigliari, rappresentano una risorsa importante e preziosa riconosciuta oltre che dalle persone afasiche che vi accedono, anche dai professionisti che lavorano nei Servizi.
Da chi è formata la tua equipe?
Dal 2006 collaborano con me Marcella Di Pietro (psicologa psicoterapeuta) e Alessia Congia (assistente sociale). Successivamente ci siamo arricchiti della collaborazione di Maristella Crielesi (psicologa psicoterapeuta) e di Lorena La Rocca (mediatrice di teatro sociale ed esperta in tecnica della comunicazione LIS). Nell’equipe c’è inoltre, Rossella Muò (logopedista) del Servizio di Logopedia Adulti che, appartenendo alla struttura ASLTO1, ci permette di realizzare interventi congiunti.
Quello che mi sembra interessante della struttura operativa è l’inserimento di un’assistente sociale, e il legame con la struttura sanitaria locale tramite la logopedista Muò. In quale modo e attraverso quali strumenti il Centro Afasia interagisce con le strutture sociosanitarie della città?
Sì, questi due fattori rappresentano effettivamente un tratto distintivo della nostra operatività. L’Assistente Sociale infatti, oltre a monitorare che le persone abbiano avuto accesso a tutte le agevolazioni previste dalla legge, si occupa soprattutto di facilitare la loro partecipazione sociale. Ovvero: da un lato esplora le risorse sociali presenti sul territorio torinese e dall’altro, in sinergia con l’equipe, progetta interventi di “accompagnamento” sociale. Una concreta e reale apertura nella comunità insomma; non è possibile infatti parlare di qualità di vita e di autonomia se non pensiamo realmente anche agli aspetti relazionali e sociali.
Per ciò che riguarda il Servizio Sanitario, abbiamo stretto una Convenzione con il Dipartimento di Riabilitazione dell’ASL TO1. Di fatto questo rappresenta il potenziamento della continuità terapeutica che da un lato – quello clinico – ci mette in relazione e, al tempo stesso, potenzia gli interventi del sistema sanitario; dall’altro – quello sociale – vuole aprire concretamente delle porte sulla sfera sociale. Il Centro stesso con i suoi interventi clinici ed i suoi progetti sociali si colloca, di fatto, come un ponte tra l’ambito sanitario e quello sociale.
Tecnicamente quindi siamo in grado di proporre ulteriori ed innovativi interventi riabilitativi: per le persone che sono in carico ai Servizi di Riabilitazione e che ci vengono inviate o per quelle che continuano la riabilitazione presso il Centro. Tali interventi oltre ad essere arricchiti di competenze solitamente non presenti nell’iter riabilitativo classico, sono pensati in ragione del loro obbiettivo finale: la maggior partecipazione sociale possibile.
Oltre la convenzione con l’ASL ne abbiamo attivate di altre. Con il Comune di Torino abbiamo un progetto aperto che riguarda uno sportello di ascolto per i cittadini sul tema Disabilità e Sessualità. Mentre con l’Università di Torino, e nella fattispecie con le Facoltà di Psicologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia – Corso di Laurea in Logopedia e in Infermieristica, ed il Master in Teatro Sociale e di Comunità Università di Torino, abbiamo importanti progetti che riguardano la formazione degli studenti.
Tornando alla riflessione sulla riabilitazione, questo discorso mi fa fare una piccola digressione. In Italia abbiamo una situazione diversa da quella che emerge, per esempio, nel Regno Unito dove la cosiddetta fase di riabilitazione prevede tempi più lunghi di presa in carico finalizzati sia al maggior recupero possibile sia ad ottimizzare le risorse psicologiche, familiari e sociali. Nel Regno Unito ci sono 2 centri riconosciuti dal Piano Sanitario che invece permettono di lavorare con le persone anche a distanza di 2-3 anni dall’insorgenza dell’evento acuto. In Italia solitamente la riabilitazione termina dopo 6 mesi, talvolta 1 anno, dall’insorgenza dell’evento acuto che ha generato la disabilità; tale termine, tra l’altro, non corrisponde alla fine delle speranza di recupero: il miglioramento per una persona afasica, se ben supportata e quindi in grado di vivere relazioni sociali appaganti, può durare tutta la vita Da noi in Italia solitamente la “fase cronica” si intende come l’inizio dell’era dove non vi sono più margini di intervento e quindi di recupero; una sorta di nebbia che inghiotte le persone e le famiglie, mentre invece diverso è poter pensare ad un progetto di riabilitazione inteso come “management a lungo termine” ed invece finalizzato proprio a dare strumenti alle persone ed alle famiglie per poter comunque navigare anche nella possibile nebbia.
Questa diversa operatività, secondo te, fa parte di una vecchia concezione della disabilità che ci porta a pensare che chi è affetto da ictus ha un margine molto limitato di recupero, dopo di che si considera in qualche modo “perduto”?
In base alla mia esperienza professionale posso dire che in Italia non mancano i professionisti competenti, aggiornati, e consapevoli. Credo che il problema sia piuttosto il gap che c’è tra le politiche sanitarie e le conoscenze, tra come sono organizzati i Servizi e le competenze che nel frattempo si sono evolute. Ad esempio anche in Italia tutti gli operatori sono a conoscenza della filosofia che c’è alla base dell’ICF – un sistema di classificazione delle componenti della salute secondo la dimensione biopsicosociale – oppure i più conoscono i principi della Convenzione di Madrid del 2002 e della Convenzione Onu del 2006 sui Diritti delle Persone con Disabilità. Il problema non è il professionista, ma piuttosto la carenza di Servizi e di Istituzioni organizzate in una maniera coerente a quelli che sono gli obbiettivi noti. Infatti, la questione fondamentale dell’integrazione sociale della persona disabile, porta a considerare che sia più efficace investire su interventi multidisciplinari con più competenze e con più direzioni possibili in termini di fattori quali: il benessere psicologico la qualità di vita e la maggior autonomia possibile. Al contrario appare meno efficace puntare su singoli interventi, magari dall’alto valore tecnico, ma isolati, limitati nel tempo e con l’unico obiettivo della riduzione del danno. Ormai è opinione condivisa che la riabilitazione è un processo con obiettivi complessi e quindi dalle variabili complesse che si deve basare su interventi flessibili e sensibili alle specificità umane.
Sicuramente se puntiamo sulla riabilitazione intesa principalmente come tecnica di riduzione del danno esponiamo le persone (i pazienti le famiglie e anche gli operatori stessi) al rischio quasi inevitabile del fallimento e della cronicità senza speranza, quando finisce il tempo della riabilitazione; se crediamo invece negli obbiettivi riabilitativi che si dichiara di condividere, occorre anche ri-abilitare la persona e le famiglie affinché possano utilizzare tutte le competenze che sono rimaste, in relazioni sociali il più appaganti ed il più autonome possibili. Ciò crea il presupposto migliore affinché si possa dire realmente ad una persona che le possibilità di miglioramento non si esauriscono con la fine della riabilitazione.
Mi sembra che tu lamenti la mancanza di strutture che possano mettere in pratica quello che è un pensiero ormai consolidato. Credo che la Fondazione sia una struttura che possa essere vissuta in questo modo….
Questo è il paradosso: tutti ormai sono quasi assuefatti nel ripetere che la riabilitazione deve occuparsi del benessere psicologico, della qualità di vita, della partecipazione sociale, però di fatto poi non si ha la possibilità di organizzare degli interventi che perseguano davvero questi obiettivi. Sicuramente la realtà che abbiamo saputo creare qui nel Centro Afasia CIRP della Fondazione Carlo Molo Onlus è una realtà particolare nel panorama delle strutture italiane, proprio perché ha cercato di trovare gli strumenti adeguati al compito. In un certo senso abbiamo trovato il modo di perseguire degli obbiettivi che vengono invece solamente dichiarati da più lati.
Nel nostro caso specifico abbiamo avuto la possibilità di utilizzare uno strumento come quello della psicoterapia, strumento che solitamente è immaginato più per altri campi che per quello neurologico e neuropsicologico dell’afasia. Certamente l’utilizzo di questo strumento ha richiesto studi ed adattamenti alla situazione specifica, però si è rivelato molto adeguato sia per comprendere tutti i fattori collegati al cambiamento di una persona, che anche come strumento di intervento stesso. D’altra parte, sempre parlando di Regno Unito e anche di Nord America, la psicoterapia e lo psicoterapeuta sono già da qualche tempo una risorsa anche per gli interventi riabilitativi.
Mi sembra di capire che, come spesso succede nelle più disparate realtà del nostro paese, esiste una sottotraccia privata (la Fondazione) che si pone al servizio del pubblico. Che cosa ti puoi auspicare. Qual è il salto successivo che a livello sociosanitario che possa essere generato dall’esperienza della Fondazione.
La prima cosa che mi aspetterei è che la nostra esperienza possa servire come motore per far partire altre esperienze simili in Italia. Ciò presupporrebbe una politica sanitaria adeguata che sostenga o almeno faciliti maggiormente ciò che al momento è interamente a carico di un soggetto privato com’è la Fondazione, ma che di fatto va a colmare un vuoto ed a migliorare la vita di cittadini – e purtroppo dati epidemiologici alla mano non sono pochi – che hanno la sfortuna di incappare in malattie od eventi traumatici che lasciano aperte delle conseguenze.
Ma secondo te avrebbe senso far nascere una casa per l’afasico?
Ti devo dire che il termine non mi piace molto. La parola “casa”, soprattutto se destinata a qualche categoria specifica, rischia di prestarsi a qualche equivoco. Non dobbiamo pensare a dei domini, a dei confini, a dei muri, che rischierebbero di tracciare uno spazio chiuso in cui si tengono occupate delle persone o che magari semplicemente serva ad allungare il tempo della riabilitazione senza però poi alcun cambiamento sul lungo termine. Penso piuttosto che le cose vadano pensate in modo funzionale alla maggior autonomia e alla maggiore inclusione sociale possibile. Quindi più che l’immagine di una “casa”, mi verrebbe quella del “ponte” che cerca di unire due sponde: quella clinica dei Servizi Sanitari dove vengono erogate le migliori cure possibili e quella sociale e familiare dove di fatto poi si svolge la vita reale di una persona e che quindi è fondamentale per la sua qualità di vita e il suo benessere psicologico. Mi viene in mente un luogo più simile a quello di un “Centro di Servizi per la Persona Afasica”, dove sicuramente possono essere anche accolte le persone ed i loro famigliari ed attuati degli interventi specifici sull’afasia, con il reale ed unico scopo però di porsi con tutte le proprie energie e risorse la sfida dell’inclusione sociale. Mi vengono in mente le parole di un mio vecchio maestro, riferite però a un’altra tipologia di pazienti, che circa dicevano: “più che pensare a organizzare ulteriori servizi o interventi dove inviare i pazienti, cerchiamo di preoccuparci a come poter fare andare le persone in luoghi che già esistono, come magari il cinema od il bar.”
Ci fai capire chi è l’afasico?
La persona afasica ha problemi con il linguaggio verbale ma spesso ha mantenuto le facoltà intellettive ed emotive. E’ in grado di pensare, di provare emozioni, ma non riesce a tradurle nelle parole adeguate. Il linguaggio verbale è sicuramente il mezzo comunicativo più usato dall’essere umano; per cui se da un lato è corretto dire che la persona afasica pur avendo limitazioni con il linguaggio verbale rimane comunque competente a livello comunicativo, è altresì evidente che tali limitazioni possono inficiare tutta la sfera della comunicazione. Trovo importante sottolineare che solitamente l’afasico è una persona che sa molto di più di quello che dice, ed anche che ricordare che spesso avere problemi nel parlare rischia di far apparire come incompetenti o sprovveduti, mentre invece quasi sempre sotto quella maschera c’è una mente che pensa, funziona e prova sensazioni. E’ importante distinguere quindi l’afasia da forme di deterioramento cognitivo come l’Alzheimer, oppure da patologie sensoriali o peggio psichiatriche; pare assurdo ma c’è ancora gente che innanzi ad un afasico alza la voce come si trattasse di un non udente, oppure attiva comportamenti come se innanzi ci fosse un bimbo o magari una persona non capace di intendere e di volere.
L’afasia può essere anche un sintomo che rientra in alcune forme dementigene, e questo aprirebbe ad altre riflessioni; noi lavoriamo con persone che invece diventano afasiche in seguito ad una patologia spesso improvvisa come può essere un ictus, oppure un trauma cranico, condizioni queste che causano una lesione cerebrale.
L’afasico è una persona che rimane assolutamente capace di avere un’idea di sé e degli altri e capace di provare emozioni. Questi cambiamenti però possono generare delle emozioni negative che possono appesantire il deficit. La capacità di provare emozioni, il pensiero , l’intelligenza, la presenza a sé stessi e la competenza comunicativa residua rappresentano le risorse da cui partiamo per realizzare e progettare gli interventi terapeutici.
Si è anche abbassato l’indice di età. Noi pensiamo che siano malattie che colpiscono le persone anziane, sul finire della loro vita attiva, invece …..
Invece prima negli Stati Uniti ed in Nord America, ma ora anche da noi in Europa e in Italia, i dati epidemiologici ci dicono che l’età di insorgenza di patologie cardiovascolari, e più in generale di patologie neurologiche, si è abbassata; senza pensare che spesso il trauma cranico riguarda persone giovani. Difatti quando pensiamo ad obbiettivi come la facilitazione della partecipazione sociale non pensiamo solo a problematiche legate alle persone anziane e quindi più facilmente rivolte al tempo libero, ma dobbiamo affrontare problematiche concrete come la formazione al lavoro, al ricollocamento e riposizionamento in un continuum sociale e anche professionale.
Ritorniamo alla distinzione tra centro diurno e centro servizi…
Trovo importante pensare di sviluppare realtà cliniche che non propongano semplicemente l’estensione della fase clinica, ma che svolgano attività coerenti con gli obiettivi ormai chiari, ovvero legati a cercare di favorire la maggiore autonomia possibile, il maggior benessere psicologico. E’ necessario tra l’altro avere in mente questi obbiettivi sin dall’inizio del percorso della persona che diventa afasica, sin dai momenti delle cure mediche in ospedale. Ciò per promuovere sin dall’inizio tutte le risorse che saranno utili per promuovere l’inclusione sociale; è riduttivo pensare che questo deve essere il compito della riabilitazione.
Per cui quando pensiamo a un centro servizi pensiamo sicuramente alla possibilità di proporre delle attività che in qualche modo sviluppino relazioni personali tra pari perché questo rappresenta un importante laboratorio di crescita relazionale, sicuramente può avere anche la finalità di realizzare attività che possano sgravare per un certo periodo di tempo il caregiver, ma la sfida che si deve porre un centro di questo tipo, se non vuole collassare o risultare inefficace, come ti dicevo, è quello di aprire un ponte verso la facilitazione e la partecipazione sociale. Questa mission non può essere in alcun modo fraintesa o messa sullo sfondo perché altrimenti cadremmo nel paradosso di cui accennavo prima.
Entrando nello specifico immaginiamo che si presenti una persona afasica. Questa persona innanzitutto come arriva al Centro?
In linea di massima le persone ci vengono inviate dai Servizi grazie alla convenzione con il Dipartimento di Riabilitazione dell’ASL TO1, quindi c’è già un’attività nell’ambulatorio, in sinergia con le logopediste, che permette di conoscere le persone nella fase di riabilitazione. Poi ci sono persone che vengono inviate da altri servizi, mentre stanno facendo la riabilitazione logopedica o quando l’hanno finita.
Quando si presenta la persona afasica facciamo una valutazione attenta e approfondita condotta da uno degli psicoterapeuti dell’equipe. Questa fase la chiamiamo con il termine un po’ tecnico di “analisi della domanda” perché andiamo proprio ad analizzare quelli che sono i bisogni espliciti ma anche quelli meno manifesti, ed è finalizzata a capire qual è l’impatto dell’ afasia sulla vita di una persona. Ogni persona ha la sua storia personale, i suoi tratti di personalità e può reagire al cambiamento con modalità differenti.
Prima mi chiedevi di definire l’afasia: facile è definire l’afasia, molto più difficile è definire la persona afasica.
Quanto dura l’analisi della domanda?
Ha una durata che varia da situazione a situazione, se devo indicarti un range ti direi che va da un numero minimo di tre a un massimo di una decina di incontri. Del resto la massima cura che poniamo nell’analizzare quale impatto ha avuto la disabilità sul continuum esistenziale dell’individuo, è un tratto distintivo del nostro modo di lavorare, nonché del nostro essere psicoterapeuti, che riteniamo fondamentale per sviluppare l’intervento successivo che sarà quindi mirato.
Questi incontri vengono fatti sia in coppia con il familiare, sia individualmente con la persona e con il familiare. Cerchiamo di analizzare e approfondire la situazione utilizzando vertici di osservazione diversi.
In questa fase raccogliamo anche dati testistici che ci serviranno non solo a scegliere gli interventi, ma anche per valutarne l’efficacia e quindi sviluppare una ricerca che ci permetta di studiare e comprendere quello che accade.
I test prevedono uno screening logopedico per valutare le capacità linguistiche ma anche le risorse comunicative, poi ci occupiamo di raccogliere dati sull’umore e quindi sul livello d’ansia presente nella persona afasica e nel caregiver e incrociamo questi dati. Vengono effettuati anche test per raccogliere dati sul funzionamento relazionale e, infine, grazie alla collaborazione con un’altra struttura della Fondazione – il Ce.R.Ne. – un esame per verificare se ci sono stati cambiamenti a livello di frequenza e di trasmissione di onde cerebrali utile a verificare se oltre al cambiamento dal punto di vista dell’umore, è presente anche un cambiamento più di natura funzionale del sistema nervoso. Quindi questi test ci aiutano sia a declinare maggiormente la conoscenza della persona sia a valutare l’efficacia dei nostri interventi. Ciò nell’ottica di pensare gli interventi stessi non come una prassi rigida ma piuttosto come strumenti continuamente migliorabili.
Finiti questi incontri voi proponete immagino una serie di percorsi….
Finita l’analisi della domanda l’equipe studia tutti i dati emersi e individua intanto se il centro ha gli strumenti adeguati alla situazione (sottolineo che il centro avendo un’alta competenza professionale ha scelto di privilegiare la qualità e la realizzazione di obbiettivi complessi; ciò significa però che non abbiamo un’ alta capacità di presa in carico in termini numerici). Se riteniamo di avere gli strumenti per fare un lavoro efficace, promuovendo l’alleanza terapeutica e di lavoro con il paziente e con il caregiver, concordiamo l’intervento più adeguato.
Gli interventi possono essere di varia natura: un intervento individuale soprattutto di natura psicoterapeutica, utilizzando sia tecniche gruppoanalitiche che strumenti più specifici quali l’EMDR o l’intervento Mindfulness, mirati soprattutto a una consulenza o ad un progetto di sostegno specifico.
Al nostro interno tendiamo però a privilegiare l’intervento di gruppo in quanto il gruppo rappresenta proprio quel luogo “germe di comunità”; un laboratorio che serve a mettere la persona in un contesto propedeutico al reinserimento sociale.
Ci sono gruppi diversi: da una parte quelli che hanno l’obiettivo di occuparsi di comunicazione verbale e sono co-condotti da uno psicoterapeuta e da un logopedista; e gruppi che hanno come obiettivo la comunicazione non verbale che prevedono la sinergia tra teatro sociale e psicoterapia.
All’interno del nostro Centro vi è anche un gruppo di teatro (NarrAzioni Teatrali) il cui zoccolo duro è costituito proprio da persone afasiche che sono interessate. Questo gruppo oltre occuparsi primariamente di teatro sociale, realizza importanti progetti sia formativi che di sensibilizzazione, rivolti a diversi settori della comunità.
Vi è poi l’ intervento più specifico – a cui facevo riferimento all’inizio – condotto dall’assistente sociale che utilizzando le evoluzioni successive al percorso terapeutico, nonché la conoscenza in suo possesso del territorio torinese, mira ad individuare le risorse ad hoc che possono essere utilizzate. In sinergia con l’equipe ed ovviamente in piena alleanza con le persone ed i familiari si prefigge di realizzare azioni e progetti concreti legati all’ampliamento della partecipazione sociale.
Mi fai un esempio rispetto a questa ultimo intervento?
Se si decide che il percorso ha raggiunto buoni risultati e necessita di possibili ulteriori sviluppi, Alessia Congia, la nostra assistente sociale, individua dei percorsi che non hanno più risvolti clinici, ma che sono più legati al tempo libero e alla partecipazione sociale all’interno di strutture e servizi presenti sul territorio.
Nel caso di persone più giovani, per esempio, siamo in contatto con le risorse territoriali che si occupano di formazione, di ricollocamento tenendo conto della disabilità acquisita. Per quello che riguarda le attività legate al tempo libero per i più anziani, lavoriamo molto con l’università della Terza Età ed altre strutture pubbliche come il Servizio Passepartout presso il quale abbiamo peraltro uno sportello di ascolto per ciò che riguarda le problematiche legate alla sfera della sessualità. Tutte queste risorse non son più interne al centro ma prevedono il reinserimento sociale e in questo senso aprono quella famosa finestra che rappresenta la nostra vera mission.
Quanto può durare l’intero ciclo e quanti pazienti vi partecipano?
Noi siamo in grado di lavorare adeguatamente con un massimo di 25-30 pazienti all’anno. L’intervento ha una durata molto variabile, che può andare mediamente da 1 anno ad anche 3 o 4 anni. Il progetto di ricerca intervento prevede anche un monitoraggio a distanza nel tempo quando l’intervento è concluso
Ci sono altre specificità all’interno della struttura come quella della ricerca scientifica in merito alle quali hai delle considerazioni da fare? e quella dedicata alla formazione rivolta agli operatori sanitari e a coloro che a vario titolo stanno accanto alle persone afasiche?
Per quanto riguarda la comunità scientifica la partecipazione, il confronto e l’aggiornamento è una precisa scelta che riteniamo fondamentale. Avere una costante possibilità di apprendimento, scambio, passa dalla possibilità di comunicare e confrontarsi sui propri interventi; questo è sicuramente una fatica aggiuntiva, ma anche e soprattutto un’occasione di crescita.
Per quanto riguarda gli interventi di formazione e di sensibilizzazione che realizziamo, entrambi sono legati alla condivisione dell’ approccio sociale alla disabilità. Quindi non pensiamo solo a percorsi che lavorano sull’individuo e sulla problematica in termini individuali, ma anche ad interventi che agiscono sul contesto, sulla comunità, per aumentare la conoscenza e promuovere la cultura più funzionale all’integrazione.
Vorrei ricordare che quello che determina la disabilità non è solamente una mancanza imputabile all’individuo, ma anche i valori culturali di riferimento hanno un peso determinante. Quindi realizziamo interventi di sensibilizzazione finalizzati a far conoscere le problematiche dell’afasia. Altri interventi con caratteristiche più specifiche e legate alla formazione, sono rivolte alle categorie professionali che entrano in contatto con la persona afasica oppure con studenti del settore che magari avranno proprio contatti con la persona afasica, affinché siano noti i giusti accorgimenti relazionali, i giusti approcci e una corretta conoscenza delle problematiche legate a questo disturbo.